AnnaGiùDalTram

giovedì 14 luglio 2016

Scripta, nella buca, rimanent -Breve storia triste vera-


Concepisci dei pensieri, podalici, li partorisci tra dolori lancinanti. Poi decidi di dargli dignità perché intrisi di passione e struggimento. Così li scrivi. Di getto. Solo che pensi che meritino un esercizio stilistico più approfondito. Li lasci decantare e ogni tanto li rivedi, perfezioni la sintassi, mediti lungamente sul lessico. Rimangono in incubatrice per settimane. Poi, arriva il momento in cui devi lasciarli andare perché sì, sono tuoi ma non sono per te. Riprendi la penna in mano e li riscrivi tutti d’un palmo fermandoti di tanto in tanto a scrutare la calligrafia, un po' di sbieco, per immedesimarti in occhi non tuoi che dovranno comprenderla in un battito di ciglia. Quando apponi la firma in realtà è come se facessi uno stripe tease liturgico; perché ti stai mettendo a nudo immolandoti sull’altare della schiettezza: sai che ti potrà portare alla resurrezione così come a una mirabolante rassegnazione. Accarezzi quelle pagine come faresti con l’amato pronto ad andare a combattere una guerra dove le possibilità di vittoria e di sconfitta si equivalgono. Imbusti e lecchi il lembo che la richiude sperando che la tua saliva abbia la stessa fierezza della ceralacca. La busta tra le mani, tenuta con la stessa alterigia con la quale una sposa tiene un bouquet sulla porta della chiesa. Bisogna però lasciarli andare quei pensieri lì. Con due dita lambisci il bordo della busta trattenendola ancora mentre i pensieri si affannano nella testa, nel cuore e nella pancia. Tornare indietro sarebbe da vigliacchi, forse, stai facendo la cosa giusta e, così, la lasci andare. Un rumore lieve ma sordo. E’ l’oblio della buca delle lettere. Fine della storia.