AnnaGiùDalTram

venerdì 27 giugno 2014

Apostrofi come stelle.

“Ti prego, ti prego fai un post sui tatuaggi di merda!”. E’ Simmy che me lo chiede davanti a una pizza kebab, che tra l’altro è una roba che non smaltisci manco se polverizzi la Citrosodina e te la sniffi per raggiungere esperienze digestive mai provate prima. Comunque, il discorso nasce dal fatto che proprio quel giorno ho pubblicato su Facebook la foto di un conoscente con un tatuaggio con le caratteristiche di cui sopra. Poi ho deciso di levarla, un po’ perché non tutti hanno il dono di comprendere la satira e un po’ perché di righe sulla macchina ne ho già parecchie. Però posso raccontarvela e in segreto mostrarvi la foto incriminata sottolineando il fatto che quando un’immagine viene pubblicata online senza restrizioni alla propria privacy eh beh, diventa dominio un po’ di tutti. Se poi si tratta di materiale che manda in visibilio le papille del mio gusto per l’ironia, non posso che godere di questi spunti che piovono dal cielo come manna. Torniamo a lui. Anzi, al centro delle sue spalle, roba che per lo meno si può vedere pubblicamente solo da giugno a settembre, diamogli questa attenuante. Font “Old English” e il verso del Blasco che dice “…perché la vita è un brivido che vola via, è tutto un’ equilibrio sopra la follia…”. Ecco, rileggetela. Ma non soffermatevi sui contenuti. Osservate l’ortografia, rimettetevi il grembiulino e tornate alle elementari. Sì, cari miei, l’apostrofo. Ora, io non so di chi sia la colpa se del committente che ha dato al tatuatore la frase scritta male, se il tatuatore abbia abbandonato gli studi in terza asilo, se gli sia partito il pennino in un impeto di quella follia di cui si parla nella canzone. Non lo so. Fatto sta che sto segnetto, che può essere scambiato per un neo bluastro, che se lo sbianchetti magari non si nota poi così tanto, che per molti può sembrare insignificante sarà una firma indelebile sulla pelle di costui che prima di risentirsi con me, dovrebbe appendere per le orecchie il suo scribacchino al quale non consiglierei il Cepu, no. L’esilio in Antartide però, sì.
Certo è che una frase così alla mercé di tutti è davvero impegnativa. Pensate però che c’è gente che ha scelto consapevolmente di farsi sfottere fino a che il Padreterno non deciderà di interrompergli questo supplizio. E’ come se uno decidesse di proposito di presentarsi al proprio matrimonio con i sandali e le calze o come se pubblicasse la propria foto nella cabina elettorale mentre sulla scheda scrive “Scilipoti è onesto”. Come minimo gli amici qualche domanda sui suoi disturbi psichici gliela faranno, eh che diamine.  

Per esempio, partiamo dall’Immobile nazionale che al momento non è rientrato in Italia perché si trova ancora in fuorigioco a Natal. Tant’è. Poco dopo la nascita della sua primogenita si fa tatuare il ritratto della bambina sull’avambraccio. Ciro ma come diavolo hai fatto a non accorgerti che quel tatuatore ti ha gabbato? Non vedi che il ritratto è il suo e non quello della tua adorabile figliola che suppongo sia un po’ più bella di come questo graffitaro te l’ha rappresentata?


Poi c’è lui. Che poverino ha proprio una Babele nel cervello, tant’è che le sinapsi non riescono a comunicare tra loro e producono sti effetti. I gusti sò gusti, ma pure la mia gelataia dice che limone e cioccolato insieme fanno schifo. Quindi esistono dei punti fermi nella vita, dei valori assoluti: farsi tatuare Gigi D’Alessio è illegale in tutti gli Stati del mondo. Tienine conto.


Infine abbiamo il caso umano. La ragazza che dopo quella botta fortissima presa cadendo di faccia dallo scivolo in lamiera del parco giochi, surriscaldato a 97° gradi il 13 di agosto di qualche anno fa, ha deciso di diventare Sailor Moon. Così si è fatta tatuare il carro dell’Orsa Maggiore, Minore, Andromeda, Cassiopea e Sagittario. Tutte su pochi centimetri di lembo facciale. A una coì che vuoi fare? Provare a prenderla a schiaffi così magari cade qualcuna di quelle stelle e puoi esprimere per lei il sacro santo desiderio che ogni giorno guardandosi allo specchio e battendosi il petto si chieda per lo meno il perché. 


mercoledì 18 giugno 2014

Quando la ciabatta fa tendenza.

L’altro giorno sono entrata in un negozio di abbigliamento maschile e ho pensato che per poter mettere quei vestiti lì al massimo puoi avere 21 anni, devi frequentare la palestra tre volte alla settimana, depilarti integralmente, guardare “Uomini e Donne” e avere la tintarella di Carlo Conti. Altrimenti c’è niente da fare, fai ridere. Partiamo dalle t-shirt. Sono quasi tutte trasparenti o con colori tipo rosa fluo o verde acqua. La maggior parte con scollo a V che arriva più o meno all’altezza dell’ombelico. Per cui capite le conditio sine qua non di cui sopra. 
Le giacche. Sapete no, che adesso si usano gli spezzati. Ecco. Le giacchette che però sono giuste sulle spalle, automaticamente hanno le maniche che ti arrivano al gomito e non le chiudi. Poi chiedi al commesso: ma com’è sto fatto? E’ la mia taglia ma non si chiude. E lui con lo sguardo alla Dolce&Gabbana (nel senso che somiglia a entrambi contemporaneamente), l’occhiale da hipster e l’orologio al polso delle dimensioni di un pendolo a cucù, ti dice candidamente: “Ma adesso si usano così”. Valà. 
I pantaloni hanno il risvolto e stanno appena sopra la caviglia. Quando andavo a scuola e mia mamma mi faceva il risvolto ai jeans mi sentivo una disadattata; peggio ancora quando toglieva il risvolto e mi faceva l’orlo ad acqua in casa: ho vissuto traumi infantili di prese per i fondelli non indifferenti. E non fate i furbi perché è successo ad ognuno di voi. 
Apriamo il capitolo scarpe e cominciamo dalle All Star. Intanto ammetto le mie colpe: ne ho cinque paia e non mi basterebbero mai. Andrei solo in giro così, alla faccia di ballerine e dècolletè senz'altro molto più aggraziate. Vent’anni fa le vendevano al mercato e te le tiravano dietro perché erano di gomma pura e i piedi lì dentro prendevano vita emanando lo stesso odore che senti passando in tangenziale nei pressi della Lipitalia. L’ultimo paio che ho comprato me l’hanno venduto come se fossero già sporche e con gli strappi di lato, fichissimi. Con la scusa che fossero limited edition mi hanno ficcato una randellata sui denti che ho dovuto promettere a San Crispino, patrono dei calzolai, che non ne avrei più comprate per tre anni per ammortizzare la cifra. O le Superga. C’era un banco che vendeva le scarpe vicino a quello di “Ebedeigiocattoli”, quando il mercato era ancora in piazza, che le aveva. Costavano una cosa tipo 10-15 mila lire. E durante tutto il ciclo delle elementari le ho sempre avute, un po’ bianche, un po’ blu. Adesso costano come minimo 50 euro ma l’odore che alla sera emanano è poi sempre lo stesso. E vogliamo parlare delle espadrillas? Noi le mettevamo o nelle recite della scuola per non rovinare il palchetto del teatrino oppure in vacanza al mare. In giro con gli amici mai, perché erano un po’ da sfigati. Ora le vendono color pastello per i ragazzi che vanno a comprare nei negozi di cui vi parlavo prima. E se vai a fare aperitivo in piazza Vittorio con le espadrillas, becchi un casino. Ma robe da matti. 
Dedichiamo anche un minutino al K-Way. Sì sì cari cicisbei, quello che diventava un marsupio con le strisce di elastico a righe che uscivano dalla tasca; ce lo facevano mettere quando andavamo a fare la castagnata a Madonna della Neve o in gita a Oropa dove sistematicamente pioveva. Era verde smeraldo o rosso vivo; averlo blu, più discreto, era già una benedizione per pochi. Adesso è diventato un marchio, c’hanno fatto pure il negozio in via Roma a Torino e all'aeroporto di Caselle e i prezzi variano tra i 55 ai 170 euro. 
Basta ho deciso, devo riesumare un po’ di roba dall’armadio e far vedere a sti pivelli da dove nascono le mode: dai pomeriggi uggiosi in cui dovevamo per forza andare in gita con la parrocchia. Tiè. 
E poi sono pronta a scommetterci: tra vent’anni, care fanciulle, il vostro principe azzurro verrà a prendervi sotto casa in sella a un Ciao della Piaggio, con le Crocs ai piedi e avrete pure il coraggio di dire che sarà un bonazzo da paura. 

mercoledì 11 giugno 2014

Nell'era di Linkedin.

A proposito del mio rapporto controverso con la lingua inglese vorrei fare una riflessione su quanto i mestieri di oggi si siano inglesizzati. Ma alla nausea. Se avete un profilo su Linkedin e ce lo avete in italiano – come me- sappiatelo: siete degli sfigati. Prendetemi pure come esempio. Cosa faccio nella vita? Scrivo cose e parlo con la dizione corretta a pagamento. Benissimo, chiaro. Ma volete mettere il fascino di scrivere sul proprio curriculum: Anna Olivero journalist and speaker. Come minimo ti scappa il goccino già solo nel batterlo sulla tastiera del pc (anzi, se non sei sfigato –come me- del Mac).
Scorro i profili on line ed è un pullulare di HR, che ti viene da dire: hr positivo o negativo? Invece no, tranquilli, un HR è un addetto alle risorse umane. Molto più rilassante come definizione no? Tant’è. Poi vado avanti e trovo CEO, COO, CTO che non centra nulla con l’omonimo ospedale anche se ste diciture ti fanno venire il trauma cranico. Questi tre sostanzialmente sono i capi, i fondatori dell’azienda per la quale lavorano. Sì ma la cosa che mi fa svalvolare è che trovi gente di vent’anni che ha fondato l’associazione degli amici del calcio a 8 e organizza eventi sportivi per rinnegati dal mondo calcistico, che si definisce Ceo and foundator. Amico mio sì, fa figo. Magari fa anche un po’ curriculum perché per lo meno ti sei inventato come occupare il tuo triste e desolato tempo libero causato dalla scelta di aver proseguito gli studi universitari. Ma anche se non te la tiri va bene uguale. Ho beccato un tot di gente che conosco che si è messa a fare il chief. Ho pensato, toh guarda, s’è buttato nel campo culinario. Poi con dispiacere ho dovuto comprendere che significava che era diventato il capetto della sua azienduccia. Prestigioso, certo, ma al contempo banale.
I migliori sono quelli che lavorano nelle agenzie di comunicazione. Li adoro. Magari hanno uno stanzino tre metri per tre dove impaginano volantini per la parrocchia ma si sono fatti la foto dello staff e ognuno ha il suo ruolo, inglesizzato, ovvio. Poi ci sono quelli già un po’ più su di tono, anche bravi, che sognano di avere un sito internet pieno di codici e sigle che manco Google translate, ancor prima di aver pagato i propri dipendenti.
Mi sono imbattuta un giorno nel leggere le mansioni di un tizio che fa il data mining specialist, che in sostanza è un cervellone informatico che analizza flussi di dati. Un nerd senza possibilità di redenzione, insomma. Ebbene, leggete con me in cosa consistono le sue mansioni in azienda: “Disegna le migliori soluzioni nel binomio digital goals e IT development. E' digital architect e coordina i team di backend development. Fa sì che le leve del progress marketing thinking siano presenti in tutti i tools sviluppati per garantirne le migliori prestazioni e redemption”. Nel dubbio: a’ sorreta.  Ma vi rendete conto? Sapete che il correttore di Word è talmente impazzito che di queste tre righe mi ha sottolineato parole in rosso a caso, anche corrette in italiano?
Magari sono io che sono troppo purista e che non comprendo che certi linguaggi, importati con l’avvento della tecnologia made in Usa, non si possano italianizzare. Capisco pure che se si lavora per un brand –anzi- per un marchio internazionale, la seconda lingua è fondamentale anche nel definire il proprio ruolo professionale ma diversamente è proprio solo uno sfoggio di cultura, se mi permettete, un po’ spocchioso. Da questo punto di vista adoro gli spagnoli. Laddove gli è stato possibile hanno mantenuto la loro lingua. Il mouse del computer, per dire, si chiama ratòn. Il football loro lo scrivono e lo pronunciano fùtbol, l’hot dog è un perrito caliente, dove perro significa cane; il guard rail è il quita miedo, cioè il togli paura, il phon è il secador e i jeans (manco la parola jeans traducono!) sono i vaqueros perché erano i pantaloni usati dai mandriani. Meravigliosi.

giovedì 5 giugno 2014

Peter Fassino.

Bond. James Bond. Fassino. Piero Fassino. Sì ok, non che il paragone regga tantissimo. Ma James Bond non rideva mai. E manco Piero. 007 aveva sempre il completo coordinato in giacca e cravatta. Come credete che si vesta al mattino Fassino per andare a Palazzo di Città a fare casini col bilancio? Uguale! Mi direte che James Bond però aveva un fascino altisonante e una schiera di donne che facevano la fila per poter essere le sue amanti. Vi confido un segreto. Voci di popolo dicono che il sex appeal di Piero non abbia nulla da invidiare a quello del famoso agente segreto. Anche se sotto gli occhi ha due borse con dentro la spesa settimanale di una famiglia di 5? Anche se quando lo vedi da lontano sembra che sia un copri abiti dotato di mobilità? Anche se ha il naso direttamente proporzionale al suo metro e 92 per rimanere in equilibrio? Sì, cari miei, pare proprio sia così la faccenda. Bond nasce in Scozia e Fassino ad Avigliana. Bond raggiunge risultati eccellenti in ambito sportivo; Fassino milita nelle giovanili della Juventus, mantenendo quello stile tipico della gobba, che sfoggia non appena gli nominano la parola “Filadelfia”, cosa che di solito lo porta a reazioni convulse e possedute. Si dice che quando Fassino promise i soldi per il rifacimento dello stadio, scese le scale dei palazzi comunali come la bambina dell’Esorcista. James Bond parla perfettamente francese, tedesco e anche inglese. Francese e tedesco non lo so. Ma l’inglese lo parla pure Piero. Beccatevi questa e poi non ditemi che sparo scemenze a vanvera.




Ora, levatevi quel sorrisino dalla faccia. Perché io, che ho studiato inglese solo al liceo con la professoressa -stimabilissima- che purtroppo per lei non aveva avuto il dono del fonema R, che mi ha fatto uscire dalle orecchie i Daffodils di William Wordswhort (sì, sì, lo so che state provando a pronunciarlo con la R di cui sopra, malefici!) e che non è riuscita -per mia negligenza- a farmi appassionare a questa lingua, davanti a una telecamera non mi ci metterei mai a parlare in inglese. Neanche con il copione scritto. Piero invece, del quale non condivido mai tuttissime le scelte che fa, si è però messo in gioco. Dice che Torino è “a rial factori taun” come lo direbbe Pino Milenr, di Telecupole. Però si sbatte e ci mette la faccia. Parpigna un po’ con gli occhi per farsi forza e giù di british english in piemontesis way.  Adesso Piero, devi fare un video mentre ti accendi una Lucky Strike e con aria affascinante ci dici che imparare l’inglese non è mai troppo tardi anche se la nostra sola lingua di riferimento fosse il patois.