Ieri sera ho sbattuto inavvertitamente due dita del piede
contro la gamba del letto. Ecco. Non dico altro. Perché prima o poi questa
sciagura infausta è capitata a tutti. E sapete cosa intendo se parlo di un
dolore atroce che dalla pianta del piede ti attanaglia le gambe poi la pancia
con un morso tremendo e ancora su, su fino a rimbombarti nel cervello. Pensate,
io che non ho propriamente un linguaggio edulcorato da educanda, non sono
neanche riuscita a imprecare. Però ho pianto. Ho pianto e riso insieme. Vi è
mai successo che questi episodi vi provochino anche delle risate inconsulte?
Tant’è che, giustamente, chi ti sta intorno pensa che tu stia facendo solo
cine. Bene. Questo è solo un pretesto per riflettere sul modo che ognuno di noi
ha di reagire al dolore fisico presunto o reale. Ci sono tre categorie di
persone: gli ipocondriaci, gli affannati e i negligenti. Io faccio parte
dell’ultimo gruppo: infatti tutt’ora zoppico come se fossi reduce dal Vietnam.
Ma mi crogiolo nel pensiero che tanto prima o poi passerà. Un affannato avrebbe
consultato subito qualche forum sul web, poi si sarebbe messo il ghiaccio e la
pomata, avrebbe fatto gli impacchi con la malva (avete mai notato che la malva
va bene un po’ per tutto? Hai i calli? Applica della malva. Hai la stipsi?
Fatti una tisana con la malva) e se proprio non fosse cessato il dolore avrebbe
consultato il solito medico di fiducia, col quale ha instaurato un rapporto
così intenso che ormai la diagnosi gliela fa per telefono senza neanche ascoltare
dove, sta volta, si senta male. L’ipocondriaco no. L’ipocondriaco sarebbe
direttamente andato al pronto per farsi una lastra, convintamente sicuro di
essersi procurato una frattura. Delle più gravi, per di più, e irreversibili,
causa dell’alluce valgo e di numerose altre complicazioni e patologie che la
medicina non ha ancora scoperto. Beh. Come vedete, nessuna delle tre categorie
è impeccabile. Ma alcune fanno più sorridere di altre. Ho amiche carissime che
hanno già provato tutti i tè: verde, nero, tè bianco, tè bancha. Vanno a
scovare il negozietto che gli garantisce la purezza maggiore del prodotto e poi
confrontano –sempre sui forum di internet- proprietà e benefici. Pure io mi
sono fatta convincere dai miracoli curativi di questa tipologia di bevanda e l’ho
comprato. Dovevo bollirlo, filtrarlo, metterlo nel thermos, senza zucchero e
berne almeno 1 litro al giorno. Al terzo, mi sono rotta e ora il tè miracoloso
lo uso al mattino per pucciarci i biscotti. Gli affannati hanno un elenco
lunghissimo di cibi che contengono sostanze presumibilmente cancerogene. Se lo
sono fatto dettare in spiaggia dalla vicina di ombrellone che vanta un master
in tuttologia non indifferente. Hanno l’amuchina nella borsetta e si lavano le
mani 27 volte al giorno. Se però tu, negligente, stai male, sono così
affannati, ma di cuore, che si occupano di te. Ti consigliano farmaci e rimedi,
cure alternative o palliative. E, mediamente, vista la loro esperienza, ci
beccano. Così ti evitano un giro inutile dal medico della mutua. Poi ci sono
gli ipocondriaci. Se inavvertitamente fai uno sternuto accanto a loro, ti
chiedono se hai l’aviaria. Si infilano la mascherina sulla bocca e ti giurano
che se dovessero ammalarsi tu sarai considerato il loro untore. Se hai un amico
ipocondriaco non azzardarti mai a dirgli una frase tipo: “sei pallido oggi”.
No. Comunicargli questa vostra banalissima osservazione potrebbe metterlo in
crisi totale. Comincerebbe a sentirsi tutti i sintomi possibili e immaginabili
che in breve tempo potrebbero portarlo al Creatore. Ripeto: fatevi gli affari
vostri e ascoltate con biblica pazienza i loro lamenti. Gli ipocondriaci sono
mediamente sani come dei pesci ma hanno tutte le malattie del mondo. Il loro
non sarà mai un semplice raffreddore, no: loro hanno come minimo la sars. L’ipocondriaco
non ha mal di pancia: ha un principio di peritonite acuta. Non ha due linee di
febbre: ha la malaria. Non ha mal di gola ma forse le tonsille da operare.
Conosce tutti i pronto soccorso della zona, avendoli frequentati nelle più
svariate ore del giorno e della notte. Ha una laurea honoris causa in patologia
ed è testimonial del prontuario farmaceutico nazionale. C’è poi una
sottocategoria di ipocondriaco, che è diabolica: l’ipocondriaco fiero e
consenziente. Quello che ha voglia di esserlo. Avevo delle colleghe che ad
assistere ai loro discorsi sembrava che vivessero in un lebbrosario. Magari
attaccava il bottone una che in modo molto angelico comunicava che il figlio
aveva un lieve principio di influenza intestinale. Bon. Quello era l’inizio
della fine. Dovevi metterti comodo e assistere al duello. Si riunivano come
calamitate tutte le colleghe dotate di prole e partiva la sfida a chi aveva
dovuto gestire il malanno più grave e complesso. Ne uscivano fuori ritratti di
bambini cagionevoli ma bionici, per aver superato tutte le peggio disfunzioni
esistenti. E voi, ve lo chiedo saltellando su un piede, che malati siete?
mercoledì 26 febbraio 2014
giovedì 20 febbraio 2014
mercoledì 19 febbraio 2014
Diversamente giovani.
Ce li avete presenti quei
signori di una certa che si avviano a diventare anziani? Quelli che hanno già
passato il fiore dei 30 e la maturità pimpante dei 40; hanno già fatto il giro
della boa dei 50 e si apprestano a rinnovare la patente sempre più frequentemente
e ad andare dall'urologo almeno una volta ogni sei mesi. Ecco, di quei signori
lì voglio parlare io. Quelli che a un certo punto, quando camminano per il
paese, stanno leggermente curvi e ciondolano avanti e indietro le braccia lungo
il corpo. E’ una cosa imprescindibile: quando hai 25 anni non la fai, ma a 72
sì. E’ un automatismo. Poi, se vanno in bicicletta, di solito usano dei reperti
della Prima e stanno con le gambe un po’ larghe, forse per aiutare le giunture
delle ginocchia a non partire definitivamente. Ne avrete visti; alcuni pedalano
trasportando l’impossibile: scale, latte (non quello munto, sto parlando delle
tole), carriole, fascine. Roba da arresto immediato per violazione della 626. Molto
spesso hanno pantaloni di velluto o di fustagno un po’ abbondanti e camicie a
quadri scozzesi. Sono gli ultimi reperti viventi di ominidi dotati di pensione,
presa in fase non ancora del tutto geriatrica. Così, per sfuggire alle grinfie
delle mogli, che, mediamente, sono delle rompipalle di dimensioni colossali, si
trovano impegni e occupazioni di vario tipo: diventano falegnami, boscaioli,
intagliatori, fresatori, elettricisti, coristi, manutentori, volontari, Alpini,
pittori, colf addetti alle commissioni, piloti professionisti di passeggini,
carrozzine o trattori, indifferentemente, trascinatori di tricicli, autisti e
portalettere. Ecco, a tal proposito, apriamo anche una parentesi sul modo di
guidare che questi signori hanno assunto col passare del tempo. La vista si è
abbassata, i riflessi non sono più pronti come quelli di una volta ma loro
guidano come se non ci fosse un domani. Avete mai notato? Non sono ancora
caduti nel baratro senza ritorno del nonu che guida in centro strada e tiene la
prima per almeno 200 metri, no. Loro sono in un limbo di vitalità, in cui
credono di avere l’esperienza giusta per potersi permettere qualsiasi tecnica
di guida. Vanno agli 80 nelle strade a curve di montagna ma ai 40 in statale.
Azzardano sorpassi con visibilità zero e si immettono negli incroci con la leggiadria
di un paso doble. E tu, al lato del passeggero, ti appendi alla maniglia
interna snocciolando tutti i rosari che non hai detto in vita tua. Torniamo a
noi. Anzi, a loro. Di solito sono una specie mite e mansueta, stile che hanno
affinato per evitare ulteriori affettamenti bilama delle consorti di cui sopra.
Si muovono sicuri e gioviali per il paese. Ne conoscono la storia, ne hanno
visto l’evoluzione, vivendo in modo consapevole sia la Guerra, sia il Boom, sia
le Rivoluzioni, sia il Declino totale. Quello che, invece, è stato praticamente
donato a noi con pacco a forma di missile, sopraggiunto da dietro. Ma dicevamo.
Loro conoscono tutti, salutano tutti e si fermano volentieri per una battuta.
Perché sono anche simpatici. L’unico inconveniente è che a volte capita che le
funzioni digerenti interne non siano più così efficaci e quindi il loro alito
non invita propriamente a un incontro appassionato alla Humphrey Bogart e
Ingrid Bergman. Però loro in fondo, in fondo lo sanno. Ed essendo buoni, come
detto, vanno sempre in giro con le Monk’s nella tasca delle braje e sovente le
offrono. Solo che le caramelle del monaco balsamiche, oltre a donare sollievo
contro tosse e mal di gola e a ridare al fiato un aroma più fresca, ti brasano
completamente l’epiglottide e stimolano
le ghiandole alla produzione di saliva sufficiente per spegnere l’incendio.
Quindi, onde evitare di vivere due minuti di paura, declini l’invito, saluti e
auguri buona giornata, scappando a gambe levate. Ognuno di noi ha un nonno o un
papà così. Dite la verità. E allora il compitino per oggi è questo, se potete.
Avvicinateli. Odorate la loro pelle coriacea che sa di colonia. E dategli un
bacino sulla guancia e sulla barba appena fatta ma spessa. Si stupiranno e si
commuoveranno. Perché quei signori lì non sono abituati alle smancerie. Ma se
le meritano. Ogni tanto, se le meritano.
mercoledì 12 febbraio 2014
Fiato alle trombe.
Avvertenze. Questo post non è
adatto a schizofrenici presunti, strombettatori compulsivi, aizzatori di folle
con fare tamarro. No. Voi no. Hic et nunc, ci vogliamo prendere una pausa,
lontano dal caos, dai clacson e dalla gente agitata. Lo spunto mi viene dalle
immagini che sui giornali e sul web descrivevano lo sciopero che il 5 febbraio
ha mandato in tilt la metropolitana londinese.
Guardateli. Sono in fila per due.
Ordinati. Mani in tasca. Mi piace perché lì in mezzo ci saranno il manager e la
badante, il broker e la colf. Ma nessuno prevarica sugli altri. Se sono lì,
hanno un motivo valido per esserci e per aver bisogno di prendere la metro,
allo stesso modo di tutti gli altri. Hanno lo sguardo paziente di chi sa che se
è stato indetto uno sciopero, non è che si possa far molto se non aspettare. Se
Romano Prodi decidesse fantasmagoricamente di ricandidarsi, io gli suggerirei
quest’immagine per la sua campagna elettorale. Mi vien quasi da pensare a
questo post a bassa voce. Non che voglia tessere le lodi dei londinesi, ci
mancherebbe. Vorrei però appendere per le orecchie allo stendibiancheria tutte
queste categorie di persone che vado elencando: quelli che non è ancora
scattato il verde e già suonano. Quelli che tagliano le file, in posta come ai
musei vaticani e quando glielo fai notare o cadono dal pero o si scocciano,
pure! I politici che nelle conferenze di partito urlano nel microfono un po’
per fomentare l’applauso, un po’ per dar credito alle nullità che stanno
dicendo. Le mamme che per sgridare il bambino che piange a squarciagola in un luogo pubblico, solitamente urlano frasi prese dal metodo teorico della
signorina Rottenmeier per dimostrare al mondo la loro autorevolezza. Al
termine di ciò, solitamente, il bambino sbraita più forte di prima. Quelli che
quando c’è coda in tangenziale passano nella corsia di emergenza. Quelli che
mentre tu parli e magari sei pure un po’ contrito nel tuo argomentare, ti
interrompono con un consiglio non richiesto che, quasi sempre, prende spunto
dalla loro vita che è, quasi sempre, un modello da imitare. Quelli che in sala
d’aspetto dal medico raccontano tutta la loro anamnesi famigliare, dalla
varicella del nipote di terzo grado, al dettaglio della loro ultima
rettoscopia. Quelli che in attesa ai
botteghini dello stadio vedono che di fronte a te ci sono altre seimila persone
ma decidono comunque di spingere. Quelli che sui mezzi pubblici ti fissano. Quelli
che tengono la suoneria con la Cavalcata delle Valchirie che sfonda il muro del
suono. I logorroici; gli inservienti, consulenti e negozianti che trattano male
i clienti. Quelli che hanno la macchina ribassata, con la marmitta
appositamente sfondata e Gigi D’Alessio a palla. I vecchi che ce l’hanno sempre
con i giovani, i giovani che si lamentano dei vecchi. I cani dei vicini. Quelli
del piano di sopra, la serranda del negozio di sotto. E infine quelli che dai
blog scrivono e pontificano su tutto e su tutti. Ops...
giovedì 6 febbraio 2014
Post in gelatina, con salsa rosa e foglia di lattuga.
Più passa il tempo e più vorrei scrivere cose che davvero mi
garbino. So che è un progetto ambizioso. Insomma, a quasi 30 anni suonati, sei
ancora un pivello nel mondo del lavoro. Sei ancora un virgulto…in attesa che la
pianta venga abbattuta. Però mi piacerebbe pigiare sui tasti col sorriso ebete
stampato in faccia. Se devi raccontare l’ultimo consiglio comunale o descrivere
la mostra di decoupage delle signore dell’Unitre (con tutto il rispetto
possibile, eh), non è che sia il massimo della libidine. Ti viene l’espressione
tipica del pesce blob (non sapete che faccia ha il pesce blob? Cercate su
Google. E anche voi direte: pure io, a volte, c’ho la vitalità del pesce blob),
e la verve di un vegetariano finito per sbaglio alla sagra del bue grasso. Ho
reso l’idea? Ecco, detto questo, tra gli altri ambiti, mi piacerebbe tanto
tantissimo fare il critico gastronomico. Ma mica perché abbia delle competenze.
Mica perché abbia fatto dei corsi di cucina o sia brava a spadellare. Lo farei solo
perché me piace magnà. E bene. Però vorrei farlo in incognito, senza servizi
privilegiati e, soprattutto, pagando il conto. Quindi, ragionando, adesso come
adesso, è meglio che continui a scrivere sul blog e farmi invitare a pranzo da
mamma. Però una cosa la voglio condividere. Un pensiero che mi è andato di
traverso, come quando lo spaghetto infila la laringe anziché l’esofago. E
sarebbero i cibi che secondo me sono demodè. Non che non siano buoni, per
carità. Intendo quei cibi ai quali pensi e non ti viene fame. Perché magari
sono anche brutti da vedere. Il cibo demodè non è necessariamente il cibo della
tradizione. Per esempio, la acciughe al verde o i peperoni con la bagna cauda,
saranno sempre re incontrastati dei miei menu dei sogni (un po’ meno per chi mi
sta accanto). No, il cibo demodè, magari è estremamente anni ’90. Ma ce l’hanno
propinato talmente tante volte che non se ne può più. Io ho stilato una mia
personalissima classifica. Entrano nella top five: il vol au vent, di quelli che compri nei pacchetti, in particolare
quelli ai funghi che non sono praticamente mai porcini, ma, in gergo delle mie
parti, pisacin. Poi. L’involtino di prosciutto cotto sepolto nella gelatina, pari merito con la barchetta di gamberetti.
Terzo posto l’ananas in scatola tagliato col goniometro, quarto il cocktail di gamberi nella conchiglia
finta e infine tutte e dico tutte tuttissime in qualsivoglia modo, fattura
e composizione, indipendentemente dalla ricetta o dalla bontà di chi le abbia
fatte, dico e ribadisco tutte, tutte, tutte le torte salate del mondo. Ahhh, l’ho detto. Basta, non ce la si fa
più. Immaginate. Cena di condivisione: cosa porti? Ma io una torta salata, tu? Io
faccio una torta rustica. E tu? Pensavo ad una quiche lorraine (che poi è la
stessa roba ma essendo infingarda, sta maledetta sfoglia, si dà nomi e
appellativi diversi per scamparla!). E diciamocelo: la maggior parte delle
volte sono dei pezzi di calcestruzzo, dei rivestimenti in lana di roccia, dei
laterizi a pasta porosa che non mandi giù neanche se saltelli per spingerli
nello stomaco.
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