AnnaGiùDalTram

venerdì 25 agosto 2017

L'estate sta iniziando.

Mi piacerebbe vivere in un faro. Di quelli che a intermittenza indicano la terra ferma a chi è in mare. Mi piacerebbe sedermi, di tanto in tanto, ai suoi piedi e osservare. Lo farei d’estate. Perché è d’estate, da un po' di tempo a questa parte, che mi piace osservarvi. E allora vorrei che a pelo d’acqua calassero un telo e lì venissero proiettate tutte le vostre incoerenze. Le mie non serve mandarle in onda: ci convivo quotidianamente, ci litigo mattino-pomeriggio-sera, mi interrogano prima di addormentarmi e appena sveglia. Vorrei però vedere a confronto la vostra faccia turbata quando dite che non avete una lira e quella goduta di quando andate a giugno a Formentera, a luglio in Grecia e ad agosto in Sardegna. In barca. Vorrei assistere a quando dite che preferite farvi invitare a cena da mamma per risparmiare un po' e poi farvi rivedere il conto dell’ultimo ristorante stellato nel quale siete stati. Vorrei farvi risentire la telefonata in cui a maggio mi dicevate che la ragazza con cui uscivate vi aveva “rotto le palle” e poi era “troppo meridionale” e sbattervi sotto gli occhi la foto che avete pubblicato sui social network mentre con lei mangiate una granita a Messina. Vorrei vedere il momento in cui voi due, che vi siete lasciati 6 mesi fa tirandovi i piatti addosso, avete deciso, a distanza di poche ore di pubblicare su Facebook la foto in vacanza con il vostro nuovo partner. Vorrei vederti usare poco il cellulare per mandare messaggi idioti e banali anche il resto dell'anno, non solo quando sei al mare con la dipendente che ti stai scopando. Vorrei assistere al momento in cui scegliete le foto da mandare a tutti i contatti whatsapp per raccontare certosinamente le vostre giornate di vacanza, con i vostri figli che sono scazzati perchè è la trecentoventiseiesima foto che gli fate e vostro marito che piuttosto opterebbe per la clausura monacale. Vi rassicuro: sì, siete bellissimi, felicissimi, mulinobianchissimi. E tutti noi moriamo di invidia. Vorrei però non dover più vedere sfoggio di felicità e opulenza a qualunque costo. Vorrei vedere, se siete onesti, gli stessi abbracci, gli stessi sorrisi, lo stesso relax che avete con le vostre famiglie, con le vostre fidanzate giovani e sode, anche tra tre mesi quando farà buio alle 17, quando Torino sega ogni entusiasmo, quando il lavoro va male, il pre mestruo, i bambini che non dormono, gli straordinari, l’amante che vuole di più, il tram in ritardo, il conto in banca, la vita. Vorrei vedere dei mari sporchi, perché da Bergeggi a Cuba, da Santorini a Rimini sembra che siate finiti tutti in paradisi terrestri. Vorrei vedere l’aria pura che abita il tuo cervello e che ti spinge a scrivere su Instagram didascalie sull’accettazione di se stessi sempre e comunque o romanticherie prese in prestito da Google, sotto la foto di te, a bordo piscina, in perizoma, due tette enormi, le labbra così gonfie di plastica che non stan più chiuse da sole. Poi, dal meraviglioso faraglione su cui mi trovo, vorrei vedere un tramonto. Ma uno vero. Quello che non avete visto voi perché eravate troppo impegnati a fotografarlo ovunque vi trovaste. Vorrei, forse solo, e concludo, andarmene in ferie anche io. Ma vi posso garantire che non vi offrirò gli stessi spettacoli. Perché soldi non ne ho davvero, plastica sotto pelle ancor meno, sorrisi facili e disinibizione neanche l’ombra. Non mi mancherete. Non vi mancherò. Perché è così che in estate dovrebbero andare le cose. 

mercoledì 23 agosto 2017

Mutatis mutandis.

Allora, leoni da tastiera, oggi sono costretta a darvi una lezione di umiltà. Prima di scagliarvi come belve inferocite sulle vittime di turno, gradirei che imparaste a documentarvi. E io, grazie alla grandissima capacità analitica che mi contraddistingue, vi illustrerò in maniera empirica come si fa. Sfrutterò l’occasione per esaminare un caso che mi sta particolarmente a cuore e che non può essere più taciuto. 
Quest’oggi miei prodi, parliamo di chi tiene le mutande sotto il costume. Anzi, più precisamente dei maschi, che tengono le mutande sotto il costume. Perché al mare le femmine fanno un sacco di altre genialate ma questa, grazie al Cielo, no. 
Allora, in spiaggia, chi più chi meno, quest’anno ci siete già andati tutti e anche voi avete assistito allo scempio. Ma come vi dicevo, non mi limiterò a inveire contro questa moda bislacca, no. Io ho approntato un breve sondaggio con tanto di interviste. Perché, non mi vergogno a dirlo, ho amici, colleghi e parenti stretti che di questo modus balneandis sono avvezzi. Intanto non cominciamo a prendercela con gli adolescenti perché i tre casi da me esaminati hanno età varie tra di loro. E ci sono anche degli adulti. Il più vecchio, che è l’amico (quindi uno che ho deliberatamente scelto di frequentare tra l’altro) tiene le mutande anche sotto la tutina della bici, quindi è un caso evidentemente perso. La sua motivazione è, udite udite, l’igiene. Ergo, per non far entrare in contatto i preziosi di famiglia con lo iodio, preferisce mettere lo slip di cotone a protezione. Il fatto che poi, tenere la mutandina intrisa d’acqua sotto il boxer che funge da costume, magari per mezza giornata in mezzo alla sabbia, favorisca una proliferazione di muschi e licheni nella zona tra lo scroto e il prepuzio che manco nella tundra delle aree polari artiche, ah, quello va bene, è igienico. 
Ma proseguiamo con la testimonianza del collega che afferma con assoluta serenità la rapidità con cui il cotone sulla pelle asciughi non appena si esca dall’acqua. Ah davvero? Per mia esperienza quando stendo le magliette, al sole di luglio, se non ci sono 40 gradi percepiti e vento di favonio forza 33 nodi, quella roba lì mica asciuga tanto in fretta e se non asciuga, puzza. Quindi non mi turlupinare: se tieni le mutande sotto il costume, dopo il bagno, puzzano. Puzzano anche perché sfregano e non raccontiamoci storie: l’acqua del mare non ha mica lo stesso effetto di un bidè fatto col sapone di Marsiglia. Però il collega non cede e mi dice: “Meglio veder la mutanda che esce dal costume che la canala di scolo”. Ineccepibile. Anzi, forse mi ha convinto. 
Ma ho avuto bisogno ancora di una testimonianza per trarre le mie conclusioni. E allora ho chiesto al parente per avere conferma che i miei geni sopravvalutati trovassero un effettivo riscontro. Così è stato e ho indagato tirando fuori un argomento al quale tutti voi vi sottrarrete con aria schifata ma almeno questa volta non siate ipocriti. Già perché la pipì in mare la facciamo tutti. Chi nuotando a rana con aria estasiata, chi andando al largo fingendo di osservare all’orizzonte i pedalò, chi seduto a riva tra una risacca e l’altra. Mettetevi nella categoria che più vi rispecchia ma siate onesti. 
Ebbene, il maschio con la mutanda sotto il costume, che fa in questi casi? La fa. Sempre e comunque. Ma, nel caso specifico da me intervistato con un filo di ribrezzo addosso, tira giù l’ambaradan e innaffia liberamente l’oceano mare. Così non rimangono tracce sul tessuto una volta usciti dall’acqua. Fantastico. Un po' meno per chi si trovi a fare snorkeling nei paraggi ma la cosa non mi riguarda: se voglio vedere dei pesci preferisco farlo quando siano già fritti in pastella. 
Infine, ultimo dettaglio che mi preme fornirvi, è che la mutanda sotto il costume va scelta con stile. Intanto sono da preferire slip e non boxer che interferiscano con il costume. Poi l’elastico va delle dimensioni di una spanna, possibilmente marca “Uomo”, “D&G” o “Calvin Klein”. Del mercato. Anche tarocchi. Così esce un po' di cafonaggine media alla quale comunque i maschi italiani sono affezionati. E poi il costume va tenuto giù, calato, di modo che la mutanda, la vera protagonista di questo sfoggio di virilità, svetti con fierezza sopra le chiappe. 
Ecco. Credo di avervi detto tutto e avervi fornito una serie dettagliata di elementi per permettervi di scegliere da che parte stare. Io sto con il poliestere e la retina che asciugano in fretta e tengono su con delicatezza ciò che la forza di gravità chiamerebbe a sé. Io, che ambisco sempre a libertà, leggerezza ed amorosi sensi, vi invito a non sentirvi costretti là sotto, che già la vita tende a soffocarci. Lasciamo che almeno la nostra intimità goda di un po' di sana anarchia.



martedì 8 agosto 2017

La rivolta dei GPD -parte1-

Mi perdonerete lo sfogo? Avrete pietà di quello che vi potrà sembrare un frullato misto di cinismo-invidia-supponenza? Perché già vi avverto: sto per addentrarmi in un sentiero tortuoso assai, che ho rimandato da troppo tempo ma che ora grida vendetta. Mamme, papà: Madre Natura, Dio, Buddha, Allah, la fortuna, la coincidenza, il fato vi hanno fatto due regali meravigliosi. Il primo è il più stupendo di tutti: siete genitori di piccoli batuffoli di cotone che vi amano alla follia. Quando cresceranno potrebbero perdere consistenza e sentimenti ma non è adesso il momento di pensare alla loro fase adolescenziale. Il secondo è la possibilità di connettervi, fotografare, condividere qualsiasi momento della vostra creatura. Se sul primo regalo mi permetto di invitarvi a una profusione smisurata, sul secondo siate sobri: un po' meno, per favore. Ve lo dico perché sento nell’aria odore di rivolta dei passeggini. Nel senso che a volte (spesso, spessissimo direi) tendiamo a dileggiare la categoria di questi poppanti che un giorno non troppo lontano cresceranno e rivedendo le foto e i video che mandavate di loro, povere stelle ignare, ai 162 gruppi di whatsapp ai quali siete iscritti, su Facebook, Twitter e Google+, beh, ve lo dico senza giri di parole, si incazzeranno come dei puma. E io sarò insindacabilmente dalla loro parte, Mamme&Papà, sarò la loro Susanna Camusso, perché avranno ragione da vendere.
Sapete quanto sia importante il dovere di cronaca e dunque vi fornirò, come sempre, esempi di vita vissuta. Ce n’è molti, di questi esempi, troppi. Quindi ho deciso di aprire una rubrica periodica su questo tema in modo da monitorarne la pericolosa deriva.
L’altro giorno un collega di Milano, un nome anche abbastanza accreditato nel panorama dell’opinionismo politico in tv e sulla carta stampata, pubblica su Facebook un video del figlio che per riservatezza chiameremo Tancredi. Un bambino stupendo, bellissimo: ricci biondi e occhi blu notte. Avrà 2 anni e mezzo 3. Lo riprende mentre in milanese il bimbo dice “Ho fatto le puzzette”, con la “E” bella aperta alla “Uè testina”. Il padre (che tra l’altro vince il premio “olfatto bionico 2017” per non essersene accorto) gli domanda candido: “E adesso che vuoi fare, andiamo?”. Al che il bimbetto con somma ovvietà dice “Mi scappa la cacca, andiamo”. Ma il padre, tronfio dello scoop che stava registrando in diretta, anziché spegnere sto maledetto telefono e portare il nano a liberarsi di ciò che ormai era in fuorigioco nel suo culetto santo, insiste:
“Ti scappa?”.
Tancredi, silenzio.
“Eh?”.
Tancredi, sguardo perso nel vuoto.
“Andiamo in bagno?”.
Tancredi, “ho fatto la cacca”, boccuccia che esprime sommo dispiacere, occhi bassi, un visino tra il vergognato e il dispiaciuto.
Ma al padre, dotato di intuito felino, tutto ciò non basta:
“Non l’hai fatta addosso…”.
Tancredi, “sì, sì l’ho fatta addosso”.
“Ma no amore, non l’hai fatta addosso, dai andiamo in bagno, forza”.
“Ma io l’ho fatta addosso la cacca!”.
Tancredi si tocca con la manina i pantaloni poi si guarda per vedere se c’è il corpo del reato. Non c’è. E' ovviamente rimasto incastrato nei Pampers. Tancredi, peccato. Peccato davverissimamente. Perché era l’occasione per far diventare questo video la bandiera della protesta dei Giovani Poppanti Dileggiati (che d’ora in poi chiameremo GPD) e ficcare una manata piena sul naso al bauscia.
Maledizione! Tancredi te l’aveva detto: puzza. Tancredi te l’aveva ribadito: mi scappa. Tancredi te l’ha ripetuto due volte: l’ho fatta addosso. Ma vuoi portarlo al cesso sì o no sto povero gagno anziché fargli un video e postarlo su Facebook alla mercè di tutti? Tancredi tieni duro (visti anche i tuoi problemi di contenimento) un giorno crescerai, i tuoi genitori invecchieranno e ci sarà un ribaltamento di ruoli: il pannolino lo metterà il tuo papà e lì sì che avremo la nostra rivincita. REC.

venerdì 4 agosto 2017

Parsimonia, spese di spedizione incluse.

Questa cosa della carta prepagata dev’essermi sfuggita di mano. La mia coscienza -che di solito è silente sulle questioni importanti della vita ma sulle puttanate sbraita come l’altoparlante del “signoreèarrivatolarrotino” - mi ha sempre impedito di dotarmi di carta di credito. Di fatto non è che ne avessi così bisogno. Da quando son provvista di conto personale, bonifici, contanti e bancomat hanno svolto egregiamente il loro sporco lavoro. Solo che poi dei geni del male hanno cominciato a spingere sta storia dell’e-commerce. Così in panciolle, comodamente stravaccata sulla sedia rotante dell’ufficio, con un dito nel naso e l’altro sul mouse, sono diventata click compulsiva. Pur di comprare cose ho tentato di accalappiarmi un falchetto da riporto che mandasse i miei soldini al destinatario. Poi ho ritenuto che convivere con un uccello appollaiato sulla scrivania pronto alla bisogna, fosse un tantino impegnativo. E comunque non rientrava tra le opzioni di pagamento dei vari ticketone del caso. Capite bene che non potevo fare altrimenti. Ho ceduto e sì, mi son fatta la prepagata. Che già solo a dirlo -“prepagata”- ti senti un po' un mix tra Mario Draghi e Paris Hilton, perché ti sembra di aver risolto tutti i tuoi problemi di macroeconomia che sostanzialmente coincidono con la possibilità di farsi un paio nuovo di scarpe col tacco che non metterai mai.

Prendo appuntamento in banca e alla seconda domanda l’impiegata mi chiede che lavoro faccio. Cerco di stare sul vago ma le parole “giornalista” e “Reteconomy” fanno credere all’ignara bancaria di avere di fronte Ignazio Visco; invece sono una che fatica addirittura a gestire la propria economia domestica. Comincia a parlarmi usando termini che per me si avvicinavano al kazako ma voglio rassicurarvi: ho costantemente finto una certa competenza, mi sono messa un po' di sbieco come si siede la Lilli Gruber quando conduce “Otto e mezzo”, socchiudevo gli occhi come se ragionassi su tabelle excel mentali e annuivo. Sempre. Alla fine della fiera l’unica cosa che ho capito è che ogni volta che ricarico la scheda gli devo lasciare 1 euro di obolo. Così ho sin da subito pensato che fosse opportuno buttarci sopra un bel po' di grano in modo da non doverne regalare uno alla banca ogni tre per due. Male, malissimo. Avere una disponibilità cospicua sulla carta prepagata ti dà un senso di onnipotenza mica da ridere. E giù di spese. Ora, per correttezza con il lettore, sincerità e autodenuncia pubblica vi dirò come ho dilapidato il mio patrimonio.

Tanto per cominciare ho comprato dei libri, per darmi un tono. Solo che seguendo su Instagram le mogli dei giocatori del Toro -che mi pare un metodo subdolo ma furbo per stalkerizzare gli stessi- ho visto che tutte pubblicizzavano quella che sembrava la rivelazione letteraria dell’estate. Al che ho pensato “Faccio un esperimento antropologico per dimostrare che le suddette non sono tutte fighe-senza-cervello, leggono e leggendo hanno anche la capacità di giudicare un testo affermando con sicurezza che è la storia della vita”. Morale: beate voi che siete fighe. Perché io no e manco intelligente a questo punto, se pensavo che un libro che si intitola “#Formentera14” potesse essere un cult.

Poi ho comprato il vetrino temperato per il mio vetusto iphone 4. Non è stato facile trovarlo perché voi, che siete sul pezzo, mi insegnate che di iphone nel frattempo ne hanno fatti altri diciotto e dunque reperire un accessorio per una roba che anche a Cupertino hanno messo nell’indifferenziata, non è così semplice. Ma su Amzon c’era, c’è tutto tuttissimo su Amazon. Morale: mi è arrivato un vetrino, ma proprio quello che usano gli ingegneri elettronici quando devono sostituire lo schermo andato in frantumi.

Con la prepagata ho poi deciso di comprare dei biglietti aerei. Perché è il viaggio che conta, non la meta. Davanti a me non si prospettano mesi particolarmente rosei. Così con la mia amica Elena ci siam dette “Sai che c’è? All’indomani del 31 ottobre partiamo e ce ne andiamo in ferie, a sfregio”. Abbiamo visto che i primi di novembre costava pochissimo andare a Londra. Click, biglietti presi! Solo per darvi conto del lasso di tempo entro il quale ci siamo fatte venire lancinanti sensi di colpa, alle 13.20 abbiamo fatto l’acquisto su Ryanair, alle 14.30 dopo la pausa pranzo eravamo in live chat con la compagnia per chiedere di disdire perché poi “Londra è carissima, noi non c’abbiamo una lira”, “se mia madre sa che vado nella città a maggior rischio attentati mi mura viva in cantina”, “io Londra l’ho già vista e tu pure” e “sai che freddo maledetto?”, “per non parlare della Brexit, quelli gli italiani li odiano”. Morale: alle 14.40, con sovrattassa, eravamo già dirottate su un volo Caselle-Malta, quanto meno ci sciacqueremo i piedi nel Mediterraneo.


Poi però con la prepagata ho fatto un acquisto meraviglioso che rimandavo da troppo tempo e che quest’anno mi sono regalata: l’abbonamento allo stadio. Con le spese di commissione per prenderlo su internet andavo direttamente da un rivenditore autorizzato a Molfetta e spendevo meno. Con la prepagata ho anche fatto delle spese per il mio benessere fisico. Nell’ordine ho comprato delle pastigliette con la griffonia che pare faccia miracoli contro la depressione e l’abbassamento dell’umore. Per ora il risultato è che ho perennemente sonno e sfanculo chiunque mi capiti a tiro. Poi un beverone di succo puro di aloe. Dovrebbe garantirmi di fermare l’invecchiamento precoce che al momento si è attanagliato nella zona perioculare, tenermi lontano da malanni di ogni genere, mosche, zanzare e pappataci, nonché contribuire alla vitalità delle mie cellule cerebrali che, contrariamente a quanto potreste pensare, avendo letto fino a qui, stanno benissimo. Nel caso le cose dovessero improvvisamente peggiorare, potrò comunque regalarmi due sedute da uno specialista. Le ho appena viste su Groupon, giuro. Le prendo con la prepagata. Si compra un po' tutto, anche un manuale di deontologia professionale, volendo. Ma questo è un altro discorso.