Quest’anno mi sono dedicata ai
concerti. Perché nella vita bisogna darsi degli obiettivi alti e per il 2016 ho
deciso di strafare. Così sono giunta ad alcune considerazioni che mi pare
doveroso condividere. Ah, avevo già detto che odio il verbo condividere in un
altro post più in basso, caso mai moriste dall’irrefrenabile voglia di saperlo.
Dicevamo. Prima di tutto: quelli alti, dietro. Non mi interessa che siate
arrivati al pomeriggio, piantando le tende two seconds fuori dai palazzetti,
mangiandovi panini con maionese e frittata per ammazzare l’attesa. Non mi
interessa che non sia colpa vostra se Madre Natura, Dio, Buddha, Allah o Krishna
vi abbiano dato il dono di osservare il mondo dall’alto. Anche se prendete la
pioggia per primi, non mi fate pena. Ai concerti districarsi tra voi pertiche è
faticoso come scendere col bob su un campo di margherite. Quindi, per cortesia,
abbiate pietà: al fondo, o al massimo di lato. Lasciate pure davanti la vostra
fidanzata urlatrice alta 1.20, tanto lei avrà occhi solo per il suo idolo sul
palco, neanche si ricorderà che avete preso ferie rischiando il licenziamento
per accompagnarla 13 ore prima, che quei biglietti che le avete regalato vi
sono costati la vendita delle cornee e che voi ascoltate di nascosto metalcore
e non ste nenie scritte da depressi per gente depressa che gode nel deprimersi
vicendevolmente. Poi, seconda categoria.
Ce n’è anche per le fanciulle. Se siete ricce, fatemi il sacrosanto favore di
legarvi i capelli. Sembra di avere davanti Telespalla Bob. Comprenderete la
difficoltà di visione che arrecate al prossimo no? Non dico di buttare 20 euro
per farvi la piega liscia che tanto poi sembrate delle foche monache. Però che
diamine, due forcine basterebbero per domare ste criniere. Terza categoria, tra
le più moleste. Quelli che zompettano come dei pungiball gonfiabili a cui è
appena stato sferrato un pugno alla Jackie Chan. Sono le persone che non
riescono a ritagliarsi come tutti uno spazio vitale entro il quale stare e per
parlare col vicino -che basterebbe solo ruotare il bacino senza altri sforzi-
si appoggiano sol vostro coccige e vi prendono a spallate come in una finale di
rugby. Allora. State calmi. Già siamo in 6000 in un locale che a malapena ne
contiene 300. Riuscite a stare fermi o quanto meno a non muovervi come se foste
tarantolati? Io mediamente sti soggetti, al terzo spintone li fisso con aria di
sfida. Poi mi rendo conto che la loro faccia denota la stessa intelligenza di
Renzo Bossi alias “Il trota” il mattino appena sveglio dopo una colossale
sbornia. E quindi mi arrendo. Prendo e mi sposto. Di solito ho la stramaledetta
fortuna di infilarmi in mezzo a un gruppo di ragazzette un po' troppo
entusiaste per i miei canoni. Quelle che urlano, ridono in modo convulso, si
abbracciano, si fanno i selfie mentre sotto passano pezzi del calibro della Canzone
di Piero. Che dici, vabbè. Già ci sono io coi miei problemi e le mie storie
tristi. Io infatti ai concerti solitamente svengo. Sarà il caldo, la pressione
sotto le scarpe, la confusione. Tipo l’anno scorso sono capitombolata due volte
nel giro di mezz’ora nel bel mezzo dello stadio al concerto di Vasco. Con tanto
di riproponimento della piadina del porcaro appena mangiata. Scusate la
franchezza ma è per rendere meglio l’idea. I volontari della Croce Rossa quando
arrivavo nella tenda per il primo soccorso mi salutavano con un cinque. “Hai
fumato? Che hai bevuto? Hai preso le pastigliette, eh?”. Ma no! Ho solo la
forza fisica di un paramecio con la sars. Mi prendo la mia dose di acqua e
zucchero e poi sono a posto. Anzi, i miei amici crociati mi davano il mio kit e
poi mi chiedevano se cortesemente potevo sloggiare per lasciare il lettino a
chi era in coda in coma etilico e aveva bisogno di una flebo per tornare nel
mondo dei vivi. L’ultima volta al concerto di Bianco, la mia amica Elena è
andata al bancone del bar per sapere se avevano dell’acqua. Ha rimediato un
bicchiere da cocktail con un po' di zucchero di canna per il mojito. Che comunque
mi ha aggiustato la serata. Da allora mi faccio fare una lavanda gastrica prima di recarmi a qualsiasi botteghino e prendo il Polase, così non rischio figuracce. Basterebbe che mettessero due sedie. Uh come mi
piacerebbe ascoltare un concerto rock seduta comodamente su una poltroncina,
come me lo godrei. Poi se c’è da fare due salti sono la prima ad animarsi. Però
questo sì che sarebbe un referendum propositivo al quale aderirei. Forse lo
firmeremmo solo io e altre due anziane della Casa di Riposo di Almese. Ma come
saremmo felici. Denota vecchiaia tutta sta pappardella? Macchè, è solo un modo
per fare cose da giovani assecondando tutta la mia profetica pigrizia. Perché alle
tisanerie, ai concerti da camera e ai seminari pomeridiani sulla poetica di
aristotele no, non voglio arrendermi. Non ancora.
lunedì 19 dicembre 2016
martedì 9 agosto 2016
Rifugiati, ultimo modello.
Premettiamo subito una cosa: non sono razzista, ma…Nel mio
paese da un anno e mezzo ci sono 50 africani, giovani, prestanti. Insomma,
diciamocelo, braccia rubate alla manodopera. Che se solo stessero nel loro
paese sai quanto lavoro potrebbero fare. Invece, scappano. E vengono a rubarlo
a noi, il lavoro. Ma questo è un altro discorso. Sono rimasta basita di fronte
al loro abbigliamento, sempre alla moda, sempre firmato. Per non parlare dei
cellulari, che io me lo sognerei l’ultimo modello Huawei. Ebbene, questi
ragazzi, che -diciamolo pure, poltriscono tutto il giorno- il giovedì
pomeriggio se la spassano al campetto sintetico nuovo di pacca. E giocano a
pallone senza sosta. Ho addirittura sentito dire che con la nuova gestione del
centro sportivo, sono stati sfrattati nel campo su erba vera accanto e qualcuno
si sarebbe pure lamentato dicendo che a calcio, su un terreno da arare non ci
avrebbe mai giocato! Ma robe dell’altro mondo. Che poi fossero scalzi, come si
vive giù, dalle loro parti, invece hanno magliette tecniche firmate e ai piedi
l’ultimo modello di Puma dai colori sgargianti e dalla griffe bella in vista.
Capito come li usano i nostri soldi?! E’
una vergogna!
Ora, se anche tu sei un “non-sono-razzista-ma”, metti il tuo
bel pollicione fiero all’insù. Se invece sei di quelli che “un-momento-fatemi-capire”,
non prostrarti al potere degli emoticons e prosegui la lettura.
“Amici, vi devo raccontare una cosa: mi è successa una tra-ge-dia”.
Sbigottimento, stupore: che diamine sarà mai capitato adesso! “Un calciatore mi
ha regalato delle scarpe vere”. Ah! Ma allora non è una tragedia, è una figata
pazzesca! Racconta bene. “Sabato, ero a Torino, in giro per il centro con un
mio amico. Entriamo in un negozio della Nike, bellissimo. Guardo tutte le
scarpe da calcio perché sai quelle verdi e blu che mi avevi dato” Sì, seconda
mano ma ben tenute. “Ecco, quelle le usavamo in tre però adesso si sono aperte
in punta. E allora sognavo davanti a queste belle scarpe nuove ma costavano
tantissimo, pensa 60 euro! A un certo punto ne vedo un paio, gialle, di marca,
le prendo in mano e a voce alta, in italiano, dico Mamma mia quanto costano. Dietro di me si avvicina uno e sento
che dice ti piacciono? E io, senza
quasi girarmi gli rispondo Sì ma…le compriamo poi un’altra volta. Lui continua e fa
se le vuoi te le compro io. Allora mi
sono girato e l’ho guardato stupito, volevo chiedergli se era matto e gli ho
detto no no grazie. Pensavo mi stesse prendendo in giro. Invece ha continuato, provale! Ed è rimasto in piedi, alle mie
spalle, mentre me le mettevo ai piedi. Lo vedevo dallo specchio, era da solo,
forse aveva un amico che lo aspettava fuori.
Il 43, perfette. Mi dice, prendile, andiamo alla cassa. Io in quel momento ho perso le parole, sai quando non riesci neanche a dire grazie. Alla cassa c’era una cesta di calze, anche quelle professionali, mi chiede, giochi a pallone, le usi? E io annuivo, sempre muto. Quelle calze costavano come… ahhh non so quante paia ne compro con quei soldi al mercato. Ha dato tutto alla cassiera, le ha passato la carta. Lei gliel’ha restituita ed è uscito dal negozio senza più voltarsi. Non ha neanche preso lo scontrino. La cassiera mi guarda e mi dice lo conosci? E io no! E’ un calciatore famoso. Mi ha messo le scarpe e le calze in una busta e sono uscito per cercarlo, per ringraziarlo ma non c’era più, era sparito. Non ho avuto neanche le parole per raccontare al mio amico cosa mi era successo.
Adesso ho queste scarpe bellissime e penso anche che sabato era il mio compleanno e non ci posso veramente credere: non ho mai avuto niente di più bello. Solo che non ho il coraggio di metterle; ogni tanto, a casa, apro la scatola e le guardo”. Ehi ma hai gli occhi lucidi! “Sì, se ne parlo mi emoziono troppo”. Vabbè ma adesso cerchiamo di capire chi è sto giocatore, forse troviamo il modo per scrivergli e ringraziarlo. Era nero? Magari ha pensato, toh guarda, un fratello meno fortunato di me, gli faccio un regalo. “No no bianco, italiano”. Beh, se la cassiera ti ha detto che era famoso, sarà stato o del Toro o della Juve. Guardiamo le facce su internet e cerchiamolo.
Il 43, perfette. Mi dice, prendile, andiamo alla cassa. Io in quel momento ho perso le parole, sai quando non riesci neanche a dire grazie. Alla cassa c’era una cesta di calze, anche quelle professionali, mi chiede, giochi a pallone, le usi? E io annuivo, sempre muto. Quelle calze costavano come… ahhh non so quante paia ne compro con quei soldi al mercato. Ha dato tutto alla cassiera, le ha passato la carta. Lei gliel’ha restituita ed è uscito dal negozio senza più voltarsi. Non ha neanche preso lo scontrino. La cassiera mi guarda e mi dice lo conosci? E io no! E’ un calciatore famoso. Mi ha messo le scarpe e le calze in una busta e sono uscito per cercarlo, per ringraziarlo ma non c’era più, era sparito. Non ho avuto neanche le parole per raccontare al mio amico cosa mi era successo.
Adesso ho queste scarpe bellissime e penso anche che sabato era il mio compleanno e non ci posso veramente credere: non ho mai avuto niente di più bello. Solo che non ho il coraggio di metterle; ogni tanto, a casa, apro la scatola e le guardo”. Ehi ma hai gli occhi lucidi! “Sì, se ne parlo mi emoziono troppo”. Vabbè ma adesso cerchiamo di capire chi è sto giocatore, forse troviamo il modo per scrivergli e ringraziarlo. Era nero? Magari ha pensato, toh guarda, un fratello meno fortunato di me, gli faccio un regalo. “No no bianco, italiano”. Beh, se la cassiera ti ha detto che era famoso, sarà stato o del Toro o della Juve. Guardiamo le facce su internet e cerchiamolo.
Passiamo in rassegna, in rigoroso ordine di fedeltà, la rosa
del Torino ma niente, non c’è. “Aveva pochi capelli, qui, sulla fronte”. E, vabbò,
guardiamo gli italiani juventini, non sono poi così tanti. Tempo zero lo individuiamo. “Sì, è proprio lui”. Accetto con una vena
di fastidio il fatto che sia a strisce poi penso “chapeau”. 80 euro di roba a
lui non fanno né caldo né freddo ma nessuno gli ha chiesto di farlo, tanto meno
senza ricevere applausi.
Adesso le metterai per giocare? “Non
so: come farò a dire ai miei fratelli che me le hanno regalate? Loro lo sanno
che non ho i soldi per comprarmele e potrebbero essere gelosi”. Beh potrebbe
andarti peggio con gli italiani che guardandoti con disprezzo i piedi diranno che gli
africani non c'hanno i soldi per vivere ma per giocare a pallone con l’ultimo modello della Puma sì. Vaglielo a
raccontare che uno dei loro beniamini che tifavano in nazionale poche settimane
fa, a cui avevano affidato tutti i loro sogni di gloria, ti ha fatto sto
regalo. Ah, a proposito, ma adesso che non avete più il campo sintetico? “Giochiamo
nell’altro vicino, l’erba è perfetta, la tagliamo noi tutte le settimane. E’
bellissimo”.
giovedì 14 luglio 2016
Scripta, nella buca, rimanent -Breve storia triste vera-
Concepisci dei pensieri, podalici, li partorisci tra dolori
lancinanti. Poi decidi di dargli dignità perché intrisi di passione e
struggimento. Così li scrivi. Di getto. Solo che pensi che meritino un
esercizio stilistico più approfondito. Li lasci decantare e ogni tanto li
rivedi, perfezioni la sintassi, mediti lungamente sul lessico. Rimangono in
incubatrice per settimane. Poi, arriva il momento in cui devi lasciarli andare perché
sì, sono tuoi ma non sono per te. Riprendi la penna in mano e li riscrivi tutti
d’un palmo fermandoti di tanto in tanto a scrutare la calligrafia, un po' di
sbieco, per immedesimarti in occhi non tuoi che dovranno comprenderla in un
battito di ciglia. Quando apponi la firma in realtà è come se facessi uno stripe
tease liturgico; perché ti stai mettendo a nudo immolandoti sull’altare della
schiettezza: sai che ti potrà portare alla resurrezione così come a una
mirabolante rassegnazione. Accarezzi quelle pagine come faresti con l’amato
pronto ad andare a combattere una guerra dove le possibilità di vittoria e di
sconfitta si equivalgono. Imbusti e lecchi il lembo che la richiude sperando
che la tua saliva abbia la stessa fierezza della ceralacca. La busta tra le
mani, tenuta con la stessa alterigia con la quale una sposa tiene un bouquet
sulla porta della chiesa. Bisogna però lasciarli andare quei pensieri lì. Con due
dita lambisci il bordo della busta trattenendola ancora mentre i pensieri si
affannano nella testa, nel cuore e nella pancia. Tornare indietro sarebbe da
vigliacchi, forse, stai facendo la cosa giusta e, così, la lasci andare. Un
rumore lieve ma sordo. E’ l’oblio della buca delle lettere. Fine della storia.
martedì 5 aprile 2016
Panama Pampers.
A parte che in questi giorni in
rassegna stampa ho già detto di tutto: Papana Papers, Panapa, Panama Pampers.
Ecco, però forse l’ultima gaffe riconduce a un’immagine semantica interessante.
Perché, teoricamente, dovrebbe scapparvi qualcosa nelle mutande visto che vi
hanno scoperchiato i conti che avevate nascosto ben bene sotto una noce di
cocco sorseggiando una pina colada fresca con le chiappe a mollo. Il problema è
che nulla vi tange. Lionel Messi, tra i furbetti dell’offshore, dice che mica
ne sapeva nulla: “Io non guardo quello che firmo. Firmo quello che dice mio
padre di firmare, non guardo né mi concentro né chiedo” ma infatti il cervello
ce l’hai nelle gambe mica in testa, questo era risaputo. Poi, Putin. Vladimiro,
biscottino nostro. Ma chi sono di nuovo quei cattivoni che dicono che ti sei
imboscato la paghetta settimanale insieme al tuo compagno di scorribande Petro
Poroshhenko? Sì ma non serve pescare nomi chissà dove: ne abbiamo pure in
Italia. Pare ci siano 800 paperoni che devono stringere le chiappe. E vi
assicuro che io sto vivendo con assoluta serenità interiore. Perchè credo una
cosa: che in Paradiso non so se ci andrò mai ma ancor meno finirò in un
paradiso fiscale. Al massimo potrei tentare il colpaccio, aprire un chiringuito
e infilare ombrellini nei cocktail. Credo anche che i soldi diano alla testa e
io preferisco conservare la mia insanità mentale senza attribuire la colpa (o
il merito) al vil denaro. Sì, meglio poveri che evasori. Poi di fatto pensavo
che di tantissimissimi soldi non saprei tanto che farmene. Una volta che ho
svaligiato in modo compulsivo Feltrinelli, comprato 10 magliette di pregiata
fattura pakistana da Zara o all’Ovs, 14 reggiseni dalla dubbia utilità da
Tezenis e mi sono permessa il lusso di lavare la macchina all’autolavaggio per
andare a cena fuori, che altro potrei fare? Forse l’abbonamento al cinema, allo
stadio e al Carignano. Poi vorrei viaggiare e fare regali inutili ai miei
nipoti. Tutto sommato non mi servono dei capitali. Già così mi rendo conto che
supero il limite dell’essenziale. Ho a casa libri di cui non ricordo la trama,
ho visto film al cine durante i quali ho dormito, ho pantaloni che neanche
sapevo di avere. Dov’è la bellezza dell’attesa, del desiderio, dell’attenzione
se consumi ciò che più ti piace in modo distaccato e distratto perché la moneta
in tasca ti permette di avere sempre di più, sempre più in modo ossessivo?
Quindi no, LucaCorderoDiMontezemolo non lo voglio il tuo conto offshore (che
poi, scusate la divagazione ma a me fa sempre sorridere sapere che Cordero in
spagnolo voglia dire Agnello…e chissà come mai). No Jackie Chan, da te voglio
solo banshay e taekwondo, non cash. Ve lo dice una che ha cercato la felicità
facendo i provini per Affari tuoi. Quando dissi che a 10 mila euro in gettoni
d’oro non avrei più aperto pacchi e me la sarei data a gambe levate a casa a offrire
spritz a tutti i miei amici, hanno capito che forse non facevo abbastanza
spettacolo. Qui invece, in quello che è stato definito il più grande caso di
evasione fiscale della storia, di fuochi d’artificio se ne vedranno. Quantomeno
lo spero, se non altro per ridare dignità al lavoro di inchiesta di oltre 300 colleghi
che hanno spulciato file e documenti in questi mesi. A loro, coi contratti di
solidarietà, o pagati a progetto, o co.co.co va la mia stima, perché hanno
fatto sapere al mondo che i ricchi se sono ricchi e i potenti se sono potenti è
perché –talvolta- hanno un barbatrucco, spesso nascosto sotto un panama in paglia.
lunedì 29 febbraio 2016
Un nome è per sempre.
Nichi, Ed. Avete smosso mari e monti per avere un figlio. Siete andati fino in Calfiornia, avete affitato l'utero di una madre indonesiana. Sto gagno potrà avere addirittura tre passaporti. Dite che è figlio di una bellissima storia d'amore. Ma allora spiegatemi il motivo, la ragione intrinseca, la volontà petalosa dentro la quale ci sta il perchè abbiate deciso di dargli un nome da cane: Tobia. [questo post è solo il preambolo di altri dedicati alle bizzarie dei nomi, stay tuned.]
sabato 20 febbraio 2016
Era il 2007 e sentii un (') Eco.
Il cielo è cupo, le nuvole gonfie
di pioggia tra poco potrebbero piangere su quest’occasione più unica che rara.
Umberto Eco, il professore, il padre de “Il nome della rosa”, lo scrittore, il
filosofo, il linguista, è qui, ad Almese. Lo rincorriamo per alcune ore, con le
reverenza che si deve a quelle rare persone intrise di genialità. Finalmente
l’occasione arriva, in tarda serata, appena sulla collina di Almese, dove Eco è
invitato ad un banchetto decisamente chic. Ci accomodiamo su due sedie da
giardino. Per un attimo balza alla mente la remota possibilità che ci si trovi
davanti al docente universitario per una terribile interrogazione di semiotica.
Ma lui, Eco, è molto di più. Adesso non può proprio piovere. “Via, fuoco”, dice
prima di iniziare con le domande. Parte ricordando la sua esperienza giovanile
in Valle, ad Avigliana e Coazze, dove lo zio, dirigente incorruttibile
dell’ufficio imposte, lo ospitava nel periodo estivo. “Ho delle memorie di
serate al tramonto, sul balcone, in grembo allo zio, mentre mi succhiavo il
dito e vedevo il lago e la Sacra. Questa è una delle immagini più forti della
mia vita”. Ecco perché l’imponente abbazia ricorrerà, in modo figurato, nel suo
celebre romanzo “Il nome della Rosa”. Gli chiediamo se pensa che la Valle di
Susa, alla luce della sua storia passata e presente, possa essere un luogo in
grado di offrire risorse alla cultura, alla comunicazione, senza correre il
rischio di chiudersi troppo in se stessa. “Quando ci si trova ai confini si è
sempre un po’ marginalizzati, questo è fatale. Però i posti di frontiera in alcuni
periodi sono stati centri di smistamento importanti per la comunicazione. Poi
siete un luogo di tale interesse turistico che mi pare non vi faccia rimanere
isolati. È anche importante preservare questo felice isolamento: può diventare
la vostra forza”. La notizia del Premio Letterario, ci ha confessato, non l’ha
particolarmente stupito: “Siamo onesti, alla mia età non mi importa più
prendere dei premi. Mi ha interessato perché era intitolato alla memoria di un
amico. Se fosse stato dedicato a Cavour, avrei declinato l’invito”. Giorgio
Calcagno e Umberto Eco si conoscevano, da quando Calcagno entrò a “La Stampa”.
Il giornalista intervistò alcune volte il letterato e subito ne nacque una
sintonia. “Ci trovavamo simpatici, avevamo gli stessi interessi, ci piacevano i
giochi linguistici, i piccoli epigrammi; c’era uno humor complice. Poi sono
piemontese anch’io e avevamo un giro di amici comuni”. Infine uno sguardo sulla
realtà attuale, a partire da una curiosità letta nella biografia che le
enciclopedie delineano di Eco. In gioventù fu impegnato nella GIAC, l'allora
ramo giovanile dell'Azione Cattolica: nei primi anni '50 fu chiamato tra i
responsabili nazionali del movimento studentesco dell'AC. Poi nel 1954 abbandonò
l'incarico (come aveva fatto Carlo Carretto) in polemica con Luigi Gedda e la
sua politica associativa di vicinanza alle destre. Così gli abbiamo chiesto se
la sua esperienza associativa l’avesse aiutato nel percorso di vita e
professionale. “Io ero un dimissionario e non ebbi i posti in Rai o al
Parlamento come coloro che invece rimasero. Ma vivere in Ac mi ha aiutato
tantissimo. E’ stata una scuola di serietà, di impegno, mi ha insegnato lo
spirito di sacrificio. Mentre i miei compagni di scuola andavano a ballare o a
sciare, io mi recavo in associazione a far giocare i bambini. Al di là delle
posizioni ideologiche e filosofiche ho mantenuto contatti con vari personaggi
storici dell’AC.” Poi una battuta sul dibattito tra Chiesa italiana e Politica
che ha voce in quest’ultimo periodo: “Non sono un profeta e non so come andrà a
finire. Attualmente si sta creando una spaccatura e ciò mette in crisi i laici
cattolici impegnati. Il fenomeno è negativo ma può darsi che si tratti di una
fiammata provvisoria”. Ne avremmo fatte ancora di domande. Anche solo per il
gusto di ascoltare la padronanza di conoscenze e di linguaggio del Professore. Ma
tutte le dirette hanno un tempo limite. Il bello sta nel saperle cogliere appieno.
Speriamo di esserci riusciti.
giovedì 11 febbraio 2016
"Il valletto imbellettato". Di Conti, Garko, Raffaele, Ghenea. Dirige l'orchestra il maestro Beppe Vessicchio. Canta: L'Italia.
A me il clima che aleggia intorno
al Festival piace. A San Remo sono affezionata perché da piccola coi miei
andavamo sempre in vacanza lì. Passavo davanti al teatro Ariston e pensavo: “Ma
che, qui dentro lo fanno?”. Quindi, se posso, lo seguo. Mi piacciono sti
avvenimenti nazionalpopolari, pieni di retorica, di trash spiccio e di qualche
canzone che poi fa il suo giusto corso e sfonda nelle radio. Mi piacciono i
Jalisse, i fiori, quello dal pubblico che urla qualcosa di incomprensibile –un
fenomeno del genere c’è sempre, da 66 anni- le scale, la sala stampa, il
balconcino con le anticipazioni per il Tg1 con Vincenzo Mollica che riesce a
starci a stento, Beppe Vessicchio, strass e paillettes. Poi le vallette. E da
quest’anno i valletti. E permettetemi di glissare su canzoni e nastrini
arcobaleno perché tanto ne hanno parlato già tutti. Punto primo: le vallette a
San Remo da che mondo e mondo, devono essere fighe. E su questo frangente negli
ultimi anni stiamo facendo un po’ acqua da tutte le parti. Ma pazienza:
puntiamo sulla bravura. Giusto! Complimenti Festival, un po’ di meritocrazia:
sale sul palco dell’Ariston solo chi è bravo. Sì. Ecco, appunto. Ora dovete
spiegarmi perché vallette e presentatori che siano, appena calcano l’Ariston si
lobotomizzano. Per presentare un cantante (mediamente tre righe di parlato)
vanno in botta d’ansia. Leggono il gobbo ma quasi sempre non lo vedono bene e
quindi strabuzzano gli occhi come all’esame della patente il mio vicino di casa
di 83 anni. Saltano righe e parole quindi la presentazione del cantante suona
più o meno come se si leggesse a voce alta il tabellone dello Scarabeo a
partita finita. Ma cribbio: siete almeno in 4 su quel palco; i cantanti in gara
non sono più di 10/15, non riuscite a dividervi il lavoro e studiarvi a memoria
quelle maledette tre righe di introduzione? Ma all’asilo non ci siete andati?
Come facevate per la poesia della festa del papà? Pazienza, ce ne faremo una
ragione: non è tutto oro quello che luccica. E soprattutto, non è tutto
botulino quello che gonfia. A meno che. Gabriel Garko. Già, lui. Il valletto. Orde
di homo sapiens che puntavano all’evoluzione della specie e invece si vedono
rappresentati dal “valletto”. Sì perché le fanciulle, le tardone e le sciure,
appena Gabriel è salito sul palco lo puntavano con i binocoli per il
birdwatching. La domanda è una sola: perché? Perché è un sex symbol? Sì, può
darsi: è un sex symbol per confusi, senz’altro. Perchè si trova esattamente nel
limbo del dubbio: si imbelletta come una femmina ma tenta la risata baritonale
da bello e dannato. Si trucca, si gonfia, si strizza, si unge qualsiasi muscolo
facciale ma poi è alto 1.90 e fa la pipì da in piedi. Gabriel, ascolta. Intanto
diamo il nome giusto alle cose. Dario, Dario Oliviero, siamo quasi cognonimi.
Sei di Settimo Torinese. Quando parli pizzichi la lingua tra i denti bianchissimi
per arrapare le ovaie in sala all’Ariston ma così facendo a noi sabaudi
riporti alla memoria un solo paragone: Gianfranco Bianco, memorabile conduttore
del Tg3 Piemonte anche definito dai valsusini duri e puri “linguetta porca”. Non noto
per essere un marcantonio da cubo, ecco. DarioOliviero-GabrielGarko: credo ti
sia rimasto incastonato un ombrello a manico tra la chiappa destra e quella
sinistra. Occhio che quella roba lì fa anche effetto mantice. Sta a vedere che
è per quello che ti si sono gonfiati gli zigomi?! Però grazie. Grazie per gli spunti. Altrimenti noi giornalisti o presunti tali, in che cosa potremmo dilettarci a spettegolare?
venerdì 29 gennaio 2016
Chi l'ha visto?
In questi giorni mi attanaglia una domanda: ma Ignazio Marino, il sindaco romano di beata memoria, dove diavolo s'è cacciato? Noi giornalisti per settimane abbiamo dovuto documentare ogni suo minimo spostamento, ogni più piccolo fiato. E ora? Non è che Mattheo l'ha obnubilato inscatolandolo come le statue capitoline?
giovedì 7 gennaio 2016
https://www.youtube.com/watch?v=h8Uy9hjAVtQ
Fammi capire: fai sto cine anche ogni volta che incontri una tua ex? Ogni volta che ti imbatti nel panettiere da cui andavi a prendere il pane cafone per la mamma da ragazzino, o tutte le volte che vedi passare una Bmw come quella che avevi 6 mesi fa mentre i sedili in pelle riscaldati della tua nuova Audi ti scaldano le chiappe? Perchè non è normale tutta sta propensione allo spargimento di cenere sul capo per i vecchi amori. Ma forse, in fondo, non stai chiedendo scusa, malpensante-che-sono. Sei solo in posizione di partenza per un tuffo carpiato. In una piscina vuota.
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