Il 70% della mia vita lo
trascorro in posti in cui non vorrei essere e con persone che non mi interessa
frequentare. Non in senso lato ma circoscritto al momento. Del tipo: siamo in
10 in birreria? Io vorrei essere in una mansarda, divano&coperta a sfondarmi
di cipster guardando, che ne so, Andata+Ritorno per la settordicesima volta. E
viceversa. Bramo solitudine in mezzo alla folla; ho manie da Village People il
mercoledì alle 20.30 appena finito il tiggì. E comunque non è facile non essere
–quasi- mai nel posto giusto al momento giusto. Però le rare volte che succede
è davvero appagante. Poi non so come mai mi vengono in mente Kurt Cobain, Jimi
Hendrix o Janis Joplin che poveracci, sta cosa di non sentirsi mai adeguati al
luogo e alle persone, forse l’hanno patita troppo e ci son rimasti sotto. In
effetti potrebbero venirmi in mente moltissime altre persone e moltissime altre
situazioni. In effetti.
mercoledì 14 ottobre 2015
venerdì 31 luglio 2015
martedì 28 luglio 2015
Chiamare ore pasti.
Odio i gruppi su whatsapp. Perché
diventano immediatamente compulsivi. Perché ognuno dice la sua ma poi
fondamentalmente non si conclude mai niente. Che ne so, crei il gruppo “Regalo
di compleanno della zia Pina” e immancabilmente, al terzo messaggio parte
l’amico idiota che o per pura idiozia –non a caso è l’#amicoiodiota- o per
semplice noia, comincia a postare immagini di tette giganti. E il regalo della
zia si trasforma irrimediabilmente in un foto romanzo pornografico. Ci sono
gruppi ai quali mi rifiuto anche solo di accedere; sono già troppe e ripetute
le convulsioni che provo ogni qualvolta vibra il telefono. Ci sono altri gruppi
invece, nei quali mi limito alla risposta preimpostata “sono fuori”
(fisicamente e mentalmente) e con rapidità felina mi prodigo
all’autoeliminazione dal suddetto, sentendo improvvisamente dentro di me la
stessa pace interiore che proverei davanti alla statua della Madonna di Lourdes
in procinto di farmi un miracolo. Il gruppo è fastidioso perché ti molesta
esattamente quando stai attendendo messaggi di vitale importanza che invece
tardano ad arrivare; lui no: lui con puntualità svizzera fa capolino sulla home
dello smartphone a intervalli regolari come le contrazioni di un parto
podalico. Per poter seguire tutti gli interventi dei vari partecipanti al
gruppo bisogna quanto meno assumere una segretaria part time dedicata che si
smazzi anche il degenero in cui sfociano queste conversazioni e che provi, con
fare certosino, a selezionare i messaggi utili da quelli assolutamente
vani. I gruppi sono infingardi perché se
osi abbandonarli prima del tempo ci sarà sicuramente qualcuno che penserà di te
che sei il solito radical chic arrogante. In taluni di essi devi anche
interagire per non fare l’asociale della situazione; ma in questi casi la
faccina che ride mentre tu stai in realtà sbattendo violentemente la testa
contro lo spigolo della vaschetta del water, ti salverà. Poi c’è il genio che
nel gruppo manda il messaggio vocale, localizzandolo tra le 8 e le 13 e tra le
14 e le 17, in pieno orario di ufficio; così sei costretto a chiuderti in bagno
per poter sentire il suo verbo che mediamente è o una minchiata pazzesca o un
banalissimo “ok” o un rutto bitonale. C’è una cosa da dire, in sintesi. L’uomo
nel corso dei secoli ha sentito l’esigenza di tante cose: fuoco, penicillina,
internet. Ma forse, credo di poter ammettere con una certa sicurezza, che dei
gruppi di whatsapp ne sentisse la mancanza come la sabbia nelle mutande. O, se
preferite, come l’acqua nei polmoni.
venerdì 10 luglio 2015
mercoledì 29 aprile 2015
Autorizzazioni.
Se una frase comincia con "Ho letto su Facebook che...", sei autorizzato a: non credere ad una parola, pensare al tuo merlo indiano con l'otite, ispezionare voracemente ed insistentemente le tue cavità nasali. Correrai forse il rischio di sembrare maniacale, ma tranquillo, il tuo interlocutore sarà troppo preso dal suo racconto per accorgersene.
giovedì 2 aprile 2015
47.
In questi giorni ho frequentato l’argomento.
Così ho pensato di aggiornare il mio testamento. Che ho già fatto da un paio d’anni,
perché ho alcune richieste bizzarre soprattutto relativamente al mio funerale.
Tralascio il resto che ora è firmato in busta chiusa per regalarvi le ultime
pensate…di quei regali utili come una manciata di sassi nel serbatoio o una
doccia sull’arca di Noè.
Nel tilèt (che mi rifiuto di
italianizzare) voglio che si scriva: “Ha fatto quel che ha potuto ed ora è
mancata” ANNA OLIVERO. Spesso si legge “Cristianamente è mancato…dopo una vita laboriosa
spesa per la famiglia…troppo presto ci ha lasciato…”. Beh io non so quanto presto
me ne andrò; in ogni caso non sarà mai né presto né tardi: sarà semplicemente
la mia ora. Sul “cristianamente” alzo le mani in segno di resa: ci si prova,
ragazzi, ma io in sto sport non sono per nulla una campionessa. Per quello
preferirei cavarmela molto più onestamente con un “Abbiate pazienza, ho provato a fare del mio
meglio, non so se ci sono riuscita; in ogni caso non è facile far bilanci quando si è rigidi e distesi". Poi scrivete pure nomi e
cariche istituzionali di quelli che annunciano la mia dipartita. Ma in fondo
voglio il post scriptum:
“Se tutto va come previsto, non dovrei essere finita
in un brutto posto. Vi aspetto, ma fate pure con comodo”.
Inoltre non vorrei che sigillassero con
troppe viti la mia bara. Nonna ne aveva 24. Guardate che quando si è lì dentro
è difficile che si scappi. E poi, comunque, non si sa mai. Anzi, come dice Silvia: nella bara ci facciamo mettere un cacciavite.
Potendo scegliere
gradirei la terra, ma a quel punto della partita credo che la mia opinione sul
posto in cui essere collocata venga facilmente scavalcata da quella del
becchino di turno.
Sulla lapide vorrei solo nome,
cognome e data di nascita. Qualsiasi foto scegliate, non sarà senz’altro di mio
gradimento ma non me la sento di impormi anche su questo. La data di morte
lasciatela perdere: intanto sono una signora e pensare che la gente faccia i
calcoli davanti alla mia tomba anziché dirmi un requiem aeternam, mi scazza
enormemente. Poi di fatto chissà dove finirò. Lasciamo solo l’inizio
quindi, che chissà nel frattempo dove andrò a cacciarmi e per quanto ne avrò.
Via col vento.
Nonna Teresa ha aspettato di
averli suonati i suoi 102 anni, prima di decidere di andarsene. Perché, non lo
diceva, ma era orgogliosa di essere arrivata a quest’età. Più che altro non ci
pensava ma non pensava neanche mai di morire. Nel corso della sua esistenza ha
visto tanti lutti, di tanti tipi ma lei, stoicamente, teneva il suo posto e si
rammaricava se qualche ultrasettantenne dipartiva: “Non era neanche tanto
anziano”, commentava in piemontese –madrelingua- dall’alto dei suoi quasi
cento. Però Nonna Teresa sapeva bene anche l’italiano perché era molto curiosa
e interessata ai fatti del mondo. Ha letto con meticolosità e costanza fino a
quando la vista glielo ha permesso Famiglia Cristiana e La Valsusa. Tutte le
settimane. Sempre. Poi quando ha smesso di vederci, gliele leggevano Maria e
Agostina, le figlie gemelle, quelle che erano nate in due ma nel 1943 fu una
bella sorpresa, non di certo anticipata da tante ecografie. Era circondata da
un numero piuttosto consistente e variegato di nipoti e pronipoti: 15 in tutto,
che con età diverse, studi ed esperienze lavorative differenti passavano a Cà
Martinet -dove abitava insieme a Nonno Notu che l’ha già preceduta- e le
raccontavano e lei domandava e chiedeva e si interessava con una sempre vivace
dialettica. Poi aveva il suo bel carattere. Redarguiva Nonno di continuo: non
stancarti, non bere, non fumare, non fare questo ma fai cortesemente e alla
svelta quello. Però lo amava come si amavano le coppie di un tempo: forse più
razionalmente, senza troppe effusioni ma con fedeltà e costanza, affidandosi quotidianamente ai grani del rosario che negli ultimi anni ascoltava in radio o alla tv a volumi che sfondavano il muro del suono. Nonna è
arrivata a 102 anni così, supportata da uno stomaco di ferro, da scarsa vista
ma molta lucidità, da pochi baci ma da una sempre fornita scatola di caramelle.
Ti abbiamo avuta tanto, non potevamo chiedere di più anche se in alcune
situazioni eravamo assolutamente convinti che non te ne saresti andata mai.
Invece la decana di Rivera è partita abbandonandosi a una giornata ventosa “che
a me piace, perché il vento porta sempre il sole”.
venerdì 16 gennaio 2015
Ricevuta canaglia.
Ragazzi io ve lo dico: state in
guardia. Da oggi, con l’iscrizione al gruppo di Facebook “Amici dello scontrino
e della ricevuta fiscale” dichiaro la mia personalissima guerra all’evasione.
La povertà aguzza l’ingegno e affina le tattiche di uguaglianza e
sopravvivenza. Punto primo: io, che sono dipendente, le tasse non le scampo. Né
le vorrei scampare perché di principio le trovo corrette e coerenti. Solo che
poi ci sono i cerebrolesi che evadendole si arricchiscono in maniera
inversamente proporzionale al nostro tracollo. Punto secondo: i furbetti devono
fare la stessa fine dell’asfalto sotto il rullo compressore. Fine. Senza pietà.
Basta. Punto terzo: dobbiamo smetterla di vergognarci a chiedere scontrino e
ricevuta fiscale. È un atto dovuto. Non c’entrano l’onestà, l’altruismo e la
pace nel mondo. Se io compro una cosa da te, se tu mi eroghi una prestazione,
tu dichiari che ti ho pagato. Bon. E non tiratemi fuori la storia del “senza
ricevuta fa tot; con la ricevuta e beh, il prezzo cambia…”. Ma come? Ladro e
imbroglione che non sei altro. Non è uno
sconto quella roba lì: è una truffa! Tu mi fai pagare meno e mi imbonisci con
questa manfrina perché sai che sono sul lastrico. Ahhhh…furfante: levati il
sorrisino da crocerossino perché stai pur sempre riempiendo le tue di tasche,
non stai facendo un’opera umanitaria nei miei confronti.
Mi attirerò le ire della
categoria ma i peggiori sono i medici. L’ho detto. Non tutti, ovviamente, come
in ogni situazione della vita. Ma sono veramente tanti quelli che tentano il
colpo. I dentisti poi… Sono stata così abituata male negli anni che, tempo fa,
decidendo di affidarmi ad un’altra professionista della dentatura, al momento
della presentazione del preventivo, sottovoce e con imbarazzo ho accennato: “Il
prezzo quindi è questo? O…”. La dottoressa mi ha guardato con aria
interrogativa, ha sbarrato gli occhi, corrucciato le sopracciglia e ha
risposto: “Ja, es ist!”. Al che mi sono ricordata subito che era tedesca e che,
per forza, certi barbatrucchi che facciamo noi italiani campioni di disonestà,
loro non li conoscono. Mi sono sentita un po’ scema, poi il mal di denti ha
prevalso. Le ho lasciato giù la cifra utile per andare 15 giorni in vacanza a
Formentera in 4, in alta stagione. Ma un po’ sollevata, io, con le chiappe al
sole a Bergeggi, una domenica di maggio e non di più, ho pensato: “Con tutte le
tasse che lo Stato italiano le farà pagare sul guadagno avuto coi miei denti, se
non altro non potrà permettersi l’all inclusive: tiè!”.
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