AnnaGiùDalTram

venerdì 22 dicembre 2017

Oliviero, no.

Fate questo esperimento con me. Immaginate che da qualche parte, nel vostro cognome, venga aggiunta una I non prevista. Mettetela in un punto a caso. Ci siete? Bene. Ed ora pensate che nei contesti più svariati le persone vi chiamino così e non col vostro cognome duro e puro. Alla lunga, ve lo assicuro, il senso di scazzo/incazzo che vi pervaderà salirà a livelli megagalattici. 
Immaginate anche questa scena: qualcuno che di soppiatto arrivi alle spalle del pagliaccio It, sì, quello di Stephen King, gli tiri una scuzzetta sul collo e poi ridendo gli sventoli il dito sotto il naso per fargli indovinare chi possa essere stato. Ecco. Io, ogni volta che mi chiamano Oliviero, sono la reazione di It ad uno scherzo di dubbio gusto come questo. 
Ultimamente è una vera croce. Tutte le volte che qualcuno deve pronunciare il mio cognome è matematico che vada a finire a schifìo. Nell’elenco degli iscritti all’esame da giornalista professionista ero Anna Oliviero. Non un bel presagio. Infatti mi hanno segato, dicendo che ho “gravi lacune sintattiche e grammaticali”. Io avrei da ridire sui vostri copia-incolla invece. Esce il mio primo pezzo sul Corriere di Torino. Firma: Anna Oliviero. Per un attimo ho avuto un problema di identità e ho creduto di essermi firmata male io. Invece no, ovviamente. Sei in fila dal medico? La segretaria per darti la ricetta urla a squarciagola “E’ arrivato l’arrotino Oliviero!”. Vai a farti un weekend fuori porta? Il giulivo proprietario del b&b ti accoglie con un “Olivieeero benvenuta!”. Vai allo stadio a vedere una partita non in abbonamento e il cicisbeo della biglietteria, pure se gli fai lo spelling, aggiunge una I di default. Chiedi l'accredito stampa per un evento mandando numero di tesserino, riferimenti anagrafici, postali, numeri di telefono e scarpe e niente, il cognome te lo frullano piazzandoci una vocale che ti cambia il codice fiscale. Lo fa anche il megacapo della tua azienda che alla cena di Natale chiama uno ad uno per fare gli auguri. Ti dice pubblicamente che sei giovane e carina, due doti per altro imprescindibili per la mia professione, coltivate con cura e maestria nei miei anni di corsi di formazione, università, redazioni. Va beh. Poi aggiunge, con calorosa stretta di mano: “Continui così, Anna Oliviero”. Ti limiti a rispondere che ti basterebbe che ti chiamassero col tuo nome e che almeno il collega che ha fatto le slide dell’organigramma della tv, frequentandoti su per giù 8 ore al giorno da tre anni e mezzo, levasse quella stramaledetta I anche dal power point con cui si presenta l’azienda all’universo mondo. 
Benedetti signori, parliamone. Perché mi aggiungete una vocale non richiesta? Ho fatto una ricerca. In Italia ci sono circa 1220 famiglie col cognome Olivero e 1233 con Oliviero. Dunque il mio non è che sia meno diffuso e vi giustifichi il refuso con l’altro. Ma soprattutto il cognome Olivero esiste praticamente solo in Piemonte da dove provengo. Dovreste rendervene conto da tanti elementi, primo fra tutti il mio accento da bela bergera che mi parte inequivocabilmente se non metto l’impostazione “dizione”. Oliviero è diffusissimo in Campania ed è primo nel comune di Gambugliano, in provincia di Vicenza. Ora, non chiedo che facciate una mappatura dei cognomi italiani prima di pronunciarne uno, chiedo solo che leggiate, copiate/incolliate, pronunciate senza troppa approssimazione il mio nome. Non è difficile, anzi, vi risparmio anche il fiato di una vocale che non c’è, non mi piace, non voglio.

Vi chiedo aiuto ragazzi. Che qualcuno mi suggerisca cosa rispondere quando mi chiamano nel modo sbagliato, perché io, per davvero, son disarmata ma vorrei dare una bella lezione a questi bulletti da pressapochismo.  Babbo Niatale e dolce Biefana, aiutatemi voi!






giovedì 21 dicembre 2017

Il 2017.

Il 2017 mi ha insegnato che:
Non importa che tu creda di scrivere discretamente bene. Ci sarà sempre qualcuno che ti dirà che hai “gravi lacune sintattiche e grammaticali”.
Non importano la laurea, i corsi, l’esperienza, la gavetta, la strada. La meritocrazia non esiste.
Non importa che sia meglio. Basta che sia giovane.
Non importa che abbia aspettato con pazienza. Basta che l'altro cognome conti di più.
Non importa che tu riesca a mettere da parte due soldi. Se paghi le tasse non li avrai per molto sul tuo conto. Certo, se non le paghi, no.
Non importano le lacrime. Ci sarà sempre una birra che ti farà ridere a crepapelle.  
Non importa che tu abbia ragione se chi dovrebbe dartela è troppo preso da se stesso.
Non importa se ti tieni col cibo durante la settimana per arrivare al sabato a pesare 50 chili. Tanto nel weekend ti sfonderai al punto da prenderne 3.
Non importano i tuoi progetti di strafare. Ci sarà sempre qualcun altro che senza bisogno di far nulla avrà l’attenzione che tu non saresti in grado di attirare neanche allestendo un circo.
Non importa che tu voglia andare al mare se chi guida preferisce la montagna.
Non importa che tu stia invecchiando, ci sarà sempre chi ti tratterà come un adolescente.
Non importa che tu non abbia voglia di invecchiare, ci sarà sempre qualcuno che ti metterà di fronte alle tue responsabilità.
Non importa che tu ti faccia pagare troppo poco. Tanto ti risponderebbero “quella, se non ti sta bene, è la porta”.
Non importa che tu non sopporti i gruppi di whatsapp, ci sarà sempre un regalo, una cena, una festa, un funerale da organizzare al quale sei invitato.
Non importa che tu ti senta figa. Sarà esattamente l’unico giorno in cui non troverai nessuno per strada.
...


venerdì 15 dicembre 2017

Il balletto che non mi aspetto.

Mia mamma fa gli anni il 14 agosto lamentandosi del fatto che il giorno del suo compleanno non ci sia quasi mai nessuno dei suoi figli in circolazione. Spiace scontentarla, però nascere la vigilia di Ferragosto non agevola certo le reunion famigliari. E infatti i regali arrivano un po' scaglionati in altri periodi dell’anno. Per esempio mio papà le ha regalato un biglietto al Regio per il 5 dicembre. Meglio, ho suggerito a mio padre di farle quel regalo perché di norma è un pensiero che apprezza tantissimo. Così per non perdere questa proficua tradizione e in cambio della buona idea suggerita, ha pagato il biglietto pure a me. In realtà non era per magnanimità, piuttosto che sorbirsi l’opera avrebbe addirittura chiesto il favore a Freddy Krueger. 
Detto questo, dopo le esperienze del passato in cui, nell’ordine, mi sono addormentata al prologo del Simon Boccanegra, ho faticato a comprendere le vicende amorose del Conte d’Almaviva e Rosina nel Barbiere di Siviglia, e sono morta con Violetta e la sua tisi sul canapè, ho proposto a mia madre un diversivo: il balletto. Siamo andate alla prima data dello Schiaccianoci. Ho stampato anche la scheda di sala per leggermi la trama e capire che cosa andassi a vedere. Beh, ascoltatemi, non fatelo. E’ assolutamente inutile. Le trame di questi spettacoli sono più ingarbugliate, incomprensibili, inafferrabili di quanto fisiologicamente succeda alla sinistra italiana tutte le volte che si avvicinano le elezioni. Per cui vi consiglio di godervi lo spettacolo senza farvi troppe domande. Perché di questo si è trattato: una delizia, dall’inizio alla fine, di quelle che ti fanno tenere lo sguardo fisso, che quasi ti dimentichi di sbattere le palpebre mentre tieni la bocca leggermente aperta con fare ebete. Roba che da questo stato di estasi mista a trance ti desti soltanto perché avendo la stessa gamba accavallata sull’altra da un’ora e tre quarti, ti si attiva lo stimolo nocicettivo (ragazzi, manco io sapevo cosa fosse, ho fatto una ricerca, fatela pure voi così si potrà dire che i miei post sono anche educativi) che ti fa capire che è ora di agire se non vuoi rimanere paralizzato così per sempre. 
Ve lo dico senza troppi giri di parole: è stato meraviglioso. Non mi ha mai colto un solo istante di noia. La trama a quel punto era proprio secondaria. Scenografie, coreografie, musiche e grazia mi hanno letteralmente colpita. 
Con l'inconsistente vacuità cerebrale che mi contraddistingue, vorrei soffermarmi con voi sui ballerini. Cominciamo dalle donzelle. Su quelle punte volavano, letteralmente, e dalla platea scorgevi sempre il sorriso sul loro volto nonostante sia piuttosto convinta che piantare l’alluce per due ore di fila in un grumo di gesso non sia propriamente esaltante come esperienza. Ad un certo punto ho seriamente pensato che le ballerine, nel loro quotidiano, non parlassero, ma al limite squittissero o cinguettassero. Perché alla leggiadria che emanano muovendosi non credo possa essere associato nulla di urlato, volgare o sgraziato. Lasciatemelo credere. Per due ore mi hanno descritto cosa sia la femminilità - una dote che difficilmente riesco a scorgere guardandomi allo specchio- accarezzando con le loro coreografie il parquet del palco, sulle note di una magistrale orchestra. 


Poi c’erano loro, i ballerini. Perdonatemi la divagazione sull’etoile che interpretava lo Schiaccianoci. Ad un certo punto è uscito da una scatola con un paio di collant rossi che segnavano muscoli dei quali ignoravo l’esistenza anatomica. Aveva ovviamente il sospensorio che comunque, per quanto mendace, fa sempre aguzzare l’occhio e ti lascia con una piacevole illusione. Io non credo di aver mai visto una struttura muscolare così armonica e ben definita. Certo, lui spiccava ma tendenzialmente erano tutti così, anche i ballerini di bassa statura erano ben proporzionati. Lo dico con cognizione di causa sebbene ammetta di aver indugiato a lungo e prevalentemente poco più giù delle loro zone lombari. Da quelle parti erano tutti cittadini onorari di Carrara. Spero cogliate. E quindi, per concludere, volevo dirvi che è stata una vera delizia per i nostri occhi e per le nostre orecchie. Mia mamma era così serena e compiaciuta che anche i rimbrotti, i rimproveri, le rotture, gli sfrantumamenti, i trituramenti ai quali mi sottopone metodicamente, parevano più dolci, quasi gradevoli. 
Dai papi, che tra poco è Natale…  

venerdì 25 agosto 2017

L'estate sta iniziando.

Mi piacerebbe vivere in un faro. Di quelli che a intermittenza indicano la terra ferma a chi è in mare. Mi piacerebbe sedermi, di tanto in tanto, ai suoi piedi e osservare. Lo farei d’estate. Perché è d’estate, da un po' di tempo a questa parte, che mi piace osservarvi. E allora vorrei che a pelo d’acqua calassero un telo e lì venissero proiettate tutte le vostre incoerenze. Le mie non serve mandarle in onda: ci convivo quotidianamente, ci litigo mattino-pomeriggio-sera, mi interrogano prima di addormentarmi e appena sveglia. Vorrei però vedere a confronto la vostra faccia turbata quando dite che non avete una lira e quella goduta di quando andate a giugno a Formentera, a luglio in Grecia e ad agosto in Sardegna. In barca. Vorrei assistere a quando dite che preferite farvi invitare a cena da mamma per risparmiare un po' e poi farvi rivedere il conto dell’ultimo ristorante stellato nel quale siete stati. Vorrei farvi risentire la telefonata in cui a maggio mi dicevate che la ragazza con cui uscivate vi aveva “rotto le palle” e poi era “troppo meridionale” e sbattervi sotto gli occhi la foto che avete pubblicato sui social network mentre con lei mangiate una granita a Messina. Vorrei vedere il momento in cui voi due, che vi siete lasciati 6 mesi fa tirandovi i piatti addosso, avete deciso, a distanza di poche ore di pubblicare su Facebook la foto in vacanza con il vostro nuovo partner. Vorrei vederti usare poco il cellulare per mandare messaggi idioti e banali anche il resto dell'anno, non solo quando sei al mare con la dipendente che ti stai scopando. Vorrei assistere al momento in cui scegliete le foto da mandare a tutti i contatti whatsapp per raccontare certosinamente le vostre giornate di vacanza, con i vostri figli che sono scazzati perchè è la trecentoventiseiesima foto che gli fate e vostro marito che piuttosto opterebbe per la clausura monacale. Vi rassicuro: sì, siete bellissimi, felicissimi, mulinobianchissimi. E tutti noi moriamo di invidia. Vorrei però non dover più vedere sfoggio di felicità e opulenza a qualunque costo. Vorrei vedere, se siete onesti, gli stessi abbracci, gli stessi sorrisi, lo stesso relax che avete con le vostre famiglie, con le vostre fidanzate giovani e sode, anche tra tre mesi quando farà buio alle 17, quando Torino sega ogni entusiasmo, quando il lavoro va male, il pre mestruo, i bambini che non dormono, gli straordinari, l’amante che vuole di più, il tram in ritardo, il conto in banca, la vita. Vorrei vedere dei mari sporchi, perché da Bergeggi a Cuba, da Santorini a Rimini sembra che siate finiti tutti in paradisi terrestri. Vorrei vedere l’aria pura che abita il tuo cervello e che ti spinge a scrivere su Instagram didascalie sull’accettazione di se stessi sempre e comunque o romanticherie prese in prestito da Google, sotto la foto di te, a bordo piscina, in perizoma, due tette enormi, le labbra così gonfie di plastica che non stan più chiuse da sole. Poi, dal meraviglioso faraglione su cui mi trovo, vorrei vedere un tramonto. Ma uno vero. Quello che non avete visto voi perché eravate troppo impegnati a fotografarlo ovunque vi trovaste. Vorrei, forse solo, e concludo, andarmene in ferie anche io. Ma vi posso garantire che non vi offrirò gli stessi spettacoli. Perché soldi non ne ho davvero, plastica sotto pelle ancor meno, sorrisi facili e disinibizione neanche l’ombra. Non mi mancherete. Non vi mancherò. Perché è così che in estate dovrebbero andare le cose. 

mercoledì 23 agosto 2017

Mutatis mutandis.

Allora, leoni da tastiera, oggi sono costretta a darvi una lezione di umiltà. Prima di scagliarvi come belve inferocite sulle vittime di turno, gradirei che imparaste a documentarvi. E io, grazie alla grandissima capacità analitica che mi contraddistingue, vi illustrerò in maniera empirica come si fa. Sfrutterò l’occasione per esaminare un caso che mi sta particolarmente a cuore e che non può essere più taciuto. 
Quest’oggi miei prodi, parliamo di chi tiene le mutande sotto il costume. Anzi, più precisamente dei maschi, che tengono le mutande sotto il costume. Perché al mare le femmine fanno un sacco di altre genialate ma questa, grazie al Cielo, no. 
Allora, in spiaggia, chi più chi meno, quest’anno ci siete già andati tutti e anche voi avete assistito allo scempio. Ma come vi dicevo, non mi limiterò a inveire contro questa moda bislacca, no. Io ho approntato un breve sondaggio con tanto di interviste. Perché, non mi vergogno a dirlo, ho amici, colleghi e parenti stretti che di questo modus balneandis sono avvezzi. Intanto non cominciamo a prendercela con gli adolescenti perché i tre casi da me esaminati hanno età varie tra di loro. E ci sono anche degli adulti. Il più vecchio, che è l’amico (quindi uno che ho deliberatamente scelto di frequentare tra l’altro) tiene le mutande anche sotto la tutina della bici, quindi è un caso evidentemente perso. La sua motivazione è, udite udite, l’igiene. Ergo, per non far entrare in contatto i preziosi di famiglia con lo iodio, preferisce mettere lo slip di cotone a protezione. Il fatto che poi, tenere la mutandina intrisa d’acqua sotto il boxer che funge da costume, magari per mezza giornata in mezzo alla sabbia, favorisca una proliferazione di muschi e licheni nella zona tra lo scroto e il prepuzio che manco nella tundra delle aree polari artiche, ah, quello va bene, è igienico. 
Ma proseguiamo con la testimonianza del collega che afferma con assoluta serenità la rapidità con cui il cotone sulla pelle asciughi non appena si esca dall’acqua. Ah davvero? Per mia esperienza quando stendo le magliette, al sole di luglio, se non ci sono 40 gradi percepiti e vento di favonio forza 33 nodi, quella roba lì mica asciuga tanto in fretta e se non asciuga, puzza. Quindi non mi turlupinare: se tieni le mutande sotto il costume, dopo il bagno, puzzano. Puzzano anche perché sfregano e non raccontiamoci storie: l’acqua del mare non ha mica lo stesso effetto di un bidè fatto col sapone di Marsiglia. Però il collega non cede e mi dice: “Meglio veder la mutanda che esce dal costume che la canala di scolo”. Ineccepibile. Anzi, forse mi ha convinto. 
Ma ho avuto bisogno ancora di una testimonianza per trarre le mie conclusioni. E allora ho chiesto al parente per avere conferma che i miei geni sopravvalutati trovassero un effettivo riscontro. Così è stato e ho indagato tirando fuori un argomento al quale tutti voi vi sottrarrete con aria schifata ma almeno questa volta non siate ipocriti. Già perché la pipì in mare la facciamo tutti. Chi nuotando a rana con aria estasiata, chi andando al largo fingendo di osservare all’orizzonte i pedalò, chi seduto a riva tra una risacca e l’altra. Mettetevi nella categoria che più vi rispecchia ma siate onesti. 
Ebbene, il maschio con la mutanda sotto il costume, che fa in questi casi? La fa. Sempre e comunque. Ma, nel caso specifico da me intervistato con un filo di ribrezzo addosso, tira giù l’ambaradan e innaffia liberamente l’oceano mare. Così non rimangono tracce sul tessuto una volta usciti dall’acqua. Fantastico. Un po' meno per chi si trovi a fare snorkeling nei paraggi ma la cosa non mi riguarda: se voglio vedere dei pesci preferisco farlo quando siano già fritti in pastella. 
Infine, ultimo dettaglio che mi preme fornirvi, è che la mutanda sotto il costume va scelta con stile. Intanto sono da preferire slip e non boxer che interferiscano con il costume. Poi l’elastico va delle dimensioni di una spanna, possibilmente marca “Uomo”, “D&G” o “Calvin Klein”. Del mercato. Anche tarocchi. Così esce un po' di cafonaggine media alla quale comunque i maschi italiani sono affezionati. E poi il costume va tenuto giù, calato, di modo che la mutanda, la vera protagonista di questo sfoggio di virilità, svetti con fierezza sopra le chiappe. 
Ecco. Credo di avervi detto tutto e avervi fornito una serie dettagliata di elementi per permettervi di scegliere da che parte stare. Io sto con il poliestere e la retina che asciugano in fretta e tengono su con delicatezza ciò che la forza di gravità chiamerebbe a sé. Io, che ambisco sempre a libertà, leggerezza ed amorosi sensi, vi invito a non sentirvi costretti là sotto, che già la vita tende a soffocarci. Lasciamo che almeno la nostra intimità goda di un po' di sana anarchia.



martedì 8 agosto 2017

La rivolta dei GPD -parte1-

Mi perdonerete lo sfogo? Avrete pietà di quello che vi potrà sembrare un frullato misto di cinismo-invidia-supponenza? Perché già vi avverto: sto per addentrarmi in un sentiero tortuoso assai, che ho rimandato da troppo tempo ma che ora grida vendetta. Mamme, papà: Madre Natura, Dio, Buddha, Allah, la fortuna, la coincidenza, il fato vi hanno fatto due regali meravigliosi. Il primo è il più stupendo di tutti: siete genitori di piccoli batuffoli di cotone che vi amano alla follia. Quando cresceranno potrebbero perdere consistenza e sentimenti ma non è adesso il momento di pensare alla loro fase adolescenziale. Il secondo è la possibilità di connettervi, fotografare, condividere qualsiasi momento della vostra creatura. Se sul primo regalo mi permetto di invitarvi a una profusione smisurata, sul secondo siate sobri: un po' meno, per favore. Ve lo dico perché sento nell’aria odore di rivolta dei passeggini. Nel senso che a volte (spesso, spessissimo direi) tendiamo a dileggiare la categoria di questi poppanti che un giorno non troppo lontano cresceranno e rivedendo le foto e i video che mandavate di loro, povere stelle ignare, ai 162 gruppi di whatsapp ai quali siete iscritti, su Facebook, Twitter e Google+, beh, ve lo dico senza giri di parole, si incazzeranno come dei puma. E io sarò insindacabilmente dalla loro parte, Mamme&Papà, sarò la loro Susanna Camusso, perché avranno ragione da vendere.
Sapete quanto sia importante il dovere di cronaca e dunque vi fornirò, come sempre, esempi di vita vissuta. Ce n’è molti, di questi esempi, troppi. Quindi ho deciso di aprire una rubrica periodica su questo tema in modo da monitorarne la pericolosa deriva.
L’altro giorno un collega di Milano, un nome anche abbastanza accreditato nel panorama dell’opinionismo politico in tv e sulla carta stampata, pubblica su Facebook un video del figlio che per riservatezza chiameremo Tancredi. Un bambino stupendo, bellissimo: ricci biondi e occhi blu notte. Avrà 2 anni e mezzo 3. Lo riprende mentre in milanese il bimbo dice “Ho fatto le puzzette”, con la “E” bella aperta alla “Uè testina”. Il padre (che tra l’altro vince il premio “olfatto bionico 2017” per non essersene accorto) gli domanda candido: “E adesso che vuoi fare, andiamo?”. Al che il bimbetto con somma ovvietà dice “Mi scappa la cacca, andiamo”. Ma il padre, tronfio dello scoop che stava registrando in diretta, anziché spegnere sto maledetto telefono e portare il nano a liberarsi di ciò che ormai era in fuorigioco nel suo culetto santo, insiste:
“Ti scappa?”.
Tancredi, silenzio.
“Eh?”.
Tancredi, sguardo perso nel vuoto.
“Andiamo in bagno?”.
Tancredi, “ho fatto la cacca”, boccuccia che esprime sommo dispiacere, occhi bassi, un visino tra il vergognato e il dispiaciuto.
Ma al padre, dotato di intuito felino, tutto ciò non basta:
“Non l’hai fatta addosso…”.
Tancredi, “sì, sì l’ho fatta addosso”.
“Ma no amore, non l’hai fatta addosso, dai andiamo in bagno, forza”.
“Ma io l’ho fatta addosso la cacca!”.
Tancredi si tocca con la manina i pantaloni poi si guarda per vedere se c’è il corpo del reato. Non c’è. E' ovviamente rimasto incastrato nei Pampers. Tancredi, peccato. Peccato davverissimamente. Perché era l’occasione per far diventare questo video la bandiera della protesta dei Giovani Poppanti Dileggiati (che d’ora in poi chiameremo GPD) e ficcare una manata piena sul naso al bauscia.
Maledizione! Tancredi te l’aveva detto: puzza. Tancredi te l’aveva ribadito: mi scappa. Tancredi te l’ha ripetuto due volte: l’ho fatta addosso. Ma vuoi portarlo al cesso sì o no sto povero gagno anziché fargli un video e postarlo su Facebook alla mercè di tutti? Tancredi tieni duro (visti anche i tuoi problemi di contenimento) un giorno crescerai, i tuoi genitori invecchieranno e ci sarà un ribaltamento di ruoli: il pannolino lo metterà il tuo papà e lì sì che avremo la nostra rivincita. REC.

venerdì 4 agosto 2017

Parsimonia, spese di spedizione incluse.

Questa cosa della carta prepagata dev’essermi sfuggita di mano. La mia coscienza -che di solito è silente sulle questioni importanti della vita ma sulle puttanate sbraita come l’altoparlante del “signoreèarrivatolarrotino” - mi ha sempre impedito di dotarmi di carta di credito. Di fatto non è che ne avessi così bisogno. Da quando son provvista di conto personale, bonifici, contanti e bancomat hanno svolto egregiamente il loro sporco lavoro. Solo che poi dei geni del male hanno cominciato a spingere sta storia dell’e-commerce. Così in panciolle, comodamente stravaccata sulla sedia rotante dell’ufficio, con un dito nel naso e l’altro sul mouse, sono diventata click compulsiva. Pur di comprare cose ho tentato di accalappiarmi un falchetto da riporto che mandasse i miei soldini al destinatario. Poi ho ritenuto che convivere con un uccello appollaiato sulla scrivania pronto alla bisogna, fosse un tantino impegnativo. E comunque non rientrava tra le opzioni di pagamento dei vari ticketone del caso. Capite bene che non potevo fare altrimenti. Ho ceduto e sì, mi son fatta la prepagata. Che già solo a dirlo -“prepagata”- ti senti un po' un mix tra Mario Draghi e Paris Hilton, perché ti sembra di aver risolto tutti i tuoi problemi di macroeconomia che sostanzialmente coincidono con la possibilità di farsi un paio nuovo di scarpe col tacco che non metterai mai.

Prendo appuntamento in banca e alla seconda domanda l’impiegata mi chiede che lavoro faccio. Cerco di stare sul vago ma le parole “giornalista” e “Reteconomy” fanno credere all’ignara bancaria di avere di fronte Ignazio Visco; invece sono una che fatica addirittura a gestire la propria economia domestica. Comincia a parlarmi usando termini che per me si avvicinavano al kazako ma voglio rassicurarvi: ho costantemente finto una certa competenza, mi sono messa un po' di sbieco come si siede la Lilli Gruber quando conduce “Otto e mezzo”, socchiudevo gli occhi come se ragionassi su tabelle excel mentali e annuivo. Sempre. Alla fine della fiera l’unica cosa che ho capito è che ogni volta che ricarico la scheda gli devo lasciare 1 euro di obolo. Così ho sin da subito pensato che fosse opportuno buttarci sopra un bel po' di grano in modo da non doverne regalare uno alla banca ogni tre per due. Male, malissimo. Avere una disponibilità cospicua sulla carta prepagata ti dà un senso di onnipotenza mica da ridere. E giù di spese. Ora, per correttezza con il lettore, sincerità e autodenuncia pubblica vi dirò come ho dilapidato il mio patrimonio.

Tanto per cominciare ho comprato dei libri, per darmi un tono. Solo che seguendo su Instagram le mogli dei giocatori del Toro -che mi pare un metodo subdolo ma furbo per stalkerizzare gli stessi- ho visto che tutte pubblicizzavano quella che sembrava la rivelazione letteraria dell’estate. Al che ho pensato “Faccio un esperimento antropologico per dimostrare che le suddette non sono tutte fighe-senza-cervello, leggono e leggendo hanno anche la capacità di giudicare un testo affermando con sicurezza che è la storia della vita”. Morale: beate voi che siete fighe. Perché io no e manco intelligente a questo punto, se pensavo che un libro che si intitola “#Formentera14” potesse essere un cult.

Poi ho comprato il vetrino temperato per il mio vetusto iphone 4. Non è stato facile trovarlo perché voi, che siete sul pezzo, mi insegnate che di iphone nel frattempo ne hanno fatti altri diciotto e dunque reperire un accessorio per una roba che anche a Cupertino hanno messo nell’indifferenziata, non è così semplice. Ma su Amzon c’era, c’è tutto tuttissimo su Amazon. Morale: mi è arrivato un vetrino, ma proprio quello che usano gli ingegneri elettronici quando devono sostituire lo schermo andato in frantumi.

Con la prepagata ho poi deciso di comprare dei biglietti aerei. Perché è il viaggio che conta, non la meta. Davanti a me non si prospettano mesi particolarmente rosei. Così con la mia amica Elena ci siam dette “Sai che c’è? All’indomani del 31 ottobre partiamo e ce ne andiamo in ferie, a sfregio”. Abbiamo visto che i primi di novembre costava pochissimo andare a Londra. Click, biglietti presi! Solo per darvi conto del lasso di tempo entro il quale ci siamo fatte venire lancinanti sensi di colpa, alle 13.20 abbiamo fatto l’acquisto su Ryanair, alle 14.30 dopo la pausa pranzo eravamo in live chat con la compagnia per chiedere di disdire perché poi “Londra è carissima, noi non c’abbiamo una lira”, “se mia madre sa che vado nella città a maggior rischio attentati mi mura viva in cantina”, “io Londra l’ho già vista e tu pure” e “sai che freddo maledetto?”, “per non parlare della Brexit, quelli gli italiani li odiano”. Morale: alle 14.40, con sovrattassa, eravamo già dirottate su un volo Caselle-Malta, quanto meno ci sciacqueremo i piedi nel Mediterraneo.


Poi però con la prepagata ho fatto un acquisto meraviglioso che rimandavo da troppo tempo e che quest’anno mi sono regalata: l’abbonamento allo stadio. Con le spese di commissione per prenderlo su internet andavo direttamente da un rivenditore autorizzato a Molfetta e spendevo meno. Con la prepagata ho anche fatto delle spese per il mio benessere fisico. Nell’ordine ho comprato delle pastigliette con la griffonia che pare faccia miracoli contro la depressione e l’abbassamento dell’umore. Per ora il risultato è che ho perennemente sonno e sfanculo chiunque mi capiti a tiro. Poi un beverone di succo puro di aloe. Dovrebbe garantirmi di fermare l’invecchiamento precoce che al momento si è attanagliato nella zona perioculare, tenermi lontano da malanni di ogni genere, mosche, zanzare e pappataci, nonché contribuire alla vitalità delle mie cellule cerebrali che, contrariamente a quanto potreste pensare, avendo letto fino a qui, stanno benissimo. Nel caso le cose dovessero improvvisamente peggiorare, potrò comunque regalarmi due sedute da uno specialista. Le ho appena viste su Groupon, giuro. Le prendo con la prepagata. Si compra un po' tutto, anche un manuale di deontologia professionale, volendo. Ma questo è un altro discorso.

martedì 11 aprile 2017

Impara l’arte e mettila da parte.

artista s. m. e f. [dal lat. mediev. artista «maestro d’arte»] (pl. m. -i). – 1. Chi esercita una delle belle arti (spec. le arti figurative, o anche la musica e la poesia): gli a. del Rinascimento; gli a. della scuola romana. Come termine di classificazione professionale e dell’uso com., anche chi svolge attività nel campo dello spettacolo (teatro, cinema, ecc.): a. lirico; a. di varietà; gli a. della radio, della televisione; i camerini degli a.; ingresso riservato agli artisti. Il termine implica spesso un giudizio di valore ed è allora attribuito a chi nell’arte professata ha raggiunto l’eccellenza: è un vero a., un grande a., un a. di genio.

Partiamo dalle definizioni. A qualcosa dovremmo pur appellarci in questo mondo di labilità e incertezze. Perché mi sono già imbattuta un po' troppo spesso rispetto al limite tollerabile, in persone che fanno uso improprio della parola di cui sopra. Cosa ben più grave: rivolgendosi a loro stesse. Ecco che dunque, occorre fare un po' di chiarezza, cari miei bei pifferai da palcoscenico, affabulatori da sagra della pigna, soubrette da inaugurazione della Pro Loco e istrioni del teatrino parrocchiale. Perché incrociare i vostri occhi pieni di entusiasmo e un po' meno di guizzo e sentirsi dire “Piacere, io faccio l’artista”, beh, obiettivamente, fa raggranellare la braccia come se mi fossi iniettata miglio decorticato sottopelle. Intanto, se tu sei un artista, magari lo lasciamo decidere alle folle, tra una sessantina d’anni, quando sarai orizzontale sotto un cipresso? A meno che tu non abbia già orde di ammiratori che comprano i cd con qualsiasi tuo vagito, che si appendano anche sui soffitti le tue opere d’arte, che usino i tuoi versi in rima per conquistare amate glaciali, non definirti artista. Perché perdi già l’80% di credibilità.
Vi racconto un paio di episodi per dovere di cronaca. Qualche mese fa esco per un aperitivo con una collega che deve presentare due suoi amici ad un’altra collega single. (Non ho mai capito se in questi casi mi chiamino perché sono di compagnia o solo perché ho una certa famigliarità con l’alcol. Credo la seconda comunque). Ma non divaghiamo. Ebbene, arriviamo al locale e i due mister Loba Loba erano già al tavolino. Il primo dei quali con un wiskhy in mano (sì, vi ricordate bene, ho detto che eravamo usciti per un aperitivo) e mescendolo come un lord irlandese ci racconta cosa fa nella vita esordendo così: “Io sono un artista”. Eccolo. Se avevo dei dubbi ne ho ricevuto conferma. E dunque che faresti di preciso per essere definito tale? “Il falegname. Ma faccio tutto io dalla progettazione alla realizzazione”. Allora, dì che sei un falegname, per dinci. Non è mica un disonore! Guarda che la parola “artigiano” non è ancora stata bandita dal buon costume. Comunque. Per la cronaca, la mia collega e Pietro Piffetti non si sono mai più rivisti.
Il secondo lo becco l’altra sera, ad un evento. Fa il cantante, che è la parola giusta. Cioè, dopo aver fatto il militare, il centralinista, l’animatore, l’impiegato, ha capito che gli piace cantare e vuol vivere di quello. Ma Vivagesùmmaria, fai benissimo e ti auguro lunga vita gorgheggiante. Ma non mi dici “Stasera presentami tu, perché sai, (il perchèsai tra l’altro mi irrita una roba che non si spiega) io sono anche bravo a fare l’intrattenitore e potrei farlo per ore, ma stasera sono stato invitato in qualità di artista e quindi non posso anche introdurmi”. Al che penso: “Luigi Tenco redivivo, Diocenescampieliberi”. Anche perché poi sento che ha la necessità di dire ad ognuno degli organizzatori della serata che lui era “l’artista”. Ora, non mettiamo neanche in discussione i testi e le melodie che hai cantato e nemmeno l’impianto audio che faceva concorrenza al “Cantatu”. Anzi, scusami, perché forse non ti ho presentato così bene. Ma lo scazzo che mi ha attanagliato era avvinghiato a me come un koala sull’eucalipto. Non mi permetterei mai di dire alcunchè sulla qualità. Ma sulla quantità sì, è un dato oggettivo. Perché quando al microfono ho annunciato che erano in vendita i tuoi Cd e, presa da spirito corporativo ho detto al pubblico che così avrebbe avuto il piacere di ascoltare i due successi proposti durante la serata più molti altri e tu mi hai fatto no con la testolina, mostrando due con le ditina, allora lì ho capito che ero stata gabbata dalla tua stratosferica prosopopea. Cioè fammi capire. Tu hai scritto due-canzoni-due, con tanto di rime baciate quanto meno azzardate e me l’hai menata tutta la sera che sei un artista? Ascoltami bene. Anche io cantavo la domenica a messa nel coro della chiesa ed ero pure intonata; pensa che facevo anche le commedie in piemontese nel teatrino di Almese. Ma mi limitavo ai plausi delle perpetue e dei miei vicini di casa, non millantavo certo doti artistiche, non ero né una vocalist né un’attrice!
Bon. Poi effettivamente penso che io sto qua, un po' rancorosa, a scrivere di te che nella beata inconsapevolezza che ti contraddistingue, sei stato capace di ritagliarti degli spazietti. Guarda, per sta volta ti salvo. Non ti scaricherò mai su iTunes ma ammirerò coraggio, intraprendenza e autostima che senz’altro ti porteranno su altri palchi. E pazienza se saranno quelli della festa patronale di Poirino o del carnevale di Carmagnola. Tu sarai lì e senza vergogna annunciandoti dirai: è arrivato l’artista, in vendita i Cd!


mercoledì 5 aprile 2017

Ta-ta-tabù.


Ragazze, io ve lo dico. Anzi, no. Facciamo una breve premessa altrimenti si scatena l’ufficio stampa dei luoghi comuni e non ne usciamo vivi. Ciò che salverà il mondo sarà senz’altro la varietà. Che a volte va di pari passo con la libertà di esprimersi nei modi più disparati, creativi, congeniali, estrosi possibili ed inimmaginabili. Su questo siamo tuttissimi d’accordo, nasconda la testa sotto la sabbia chi la pensa diversamente, lasciandoci solo il piacere di conversare col proprio posteriore che senz’altro avrà più argomenti. Però, cari miei giovanotti, esiste anche quell’altro tipo di libertà, un po' bizzarra e démodé, che prevede di far notare quando il limite si sia oltrepassato, quando da quella creatività, congenialità ed estrosità vi siete lasciate prendere un po' troppo la mano.

Ecco. Quindi ora sono libera di dirvelo, ragazze: basta con ste labbra siliconate, gonfiate, strapazzate, superdotate. Perché, e ve lo dico francamente, il rischio che correte è solo ed unicamente quello di riproporre l’omino liquirizia delle caramelle Tabù di beata memoria.



Che poi sta moda ha attanagliato proprio tutte: bionde, more, lisce, ricce, alte, basse, visi tondi, visi larghi, visi oblunghi. E prevalentemente due categorie di femmine: quelle coi soldi, fighe. Quindi, converrete con me, che se già Madre Natura è stata munifica con voi (magari lesinando su altri aspetti ma abbiamo detto che non sta a noi giudicare) facendovi decisamente più carine della media, ma perché dovete iniettarvi saccate di acido ialuronico per sembrare poi il materassino che avevo al mare? Guardate che poi quella roba lì si ammoscia, ne sarete schiave per sempre, non si può mica mettere una toppa con l’attak come facevo, per l’appunto, col mio materassino gonfiabile che puntualmente bucavo, strisciandolo sulle pietre laviche delle spiagge libere che frequentavo da infante. Inoltre il rischio è che, essendo in tante ad aver avuto st’idea luminare (bionde, more, lisce, ricce, alte, basse, visi tondi, visi larghi, visi oblunghi), vi assomiglierete tutte. Ilary Blasi, per esempio, fighissima, sta prendendo una pericolosissima deriva verso la Daniela, consorte dell’indimenticato Mike Bongiorno. A Nina Moric manca il biondo per essere confusa con Donatella Versace. Poi mi date anche nome, cognome, indirizzo della mamma e numero di targa di quei cicisbei di maschi omega (che per chi non lo sapesse sta al capo opposto dell’alfa) che vi hanno detto che con sti salamini beretta sulla bocca siete più attraenti. Perché vanno puniti. Severamente.

Zompettando un po' su internet si trovano addirittura gli esercizi da fare metodicamente, ogni giorno che sorge il sole, per farsi venire labbra carnose. Molti di quegli esercizi ho provato a farli in ufficio davanti al pc ma i miei colleghi han chiamato la protezione animali. Tipo questo, che è uno dei più semplici. Leggete:

“Vuoi labbra più carnose? Allora allenale! Esistono tanti tipi di esercizi per ingrandire le labbra, uno di questi parte proprio dalla famosa duck face: disponi le labbra come se stessi per dare un bacio e mantieni questa posizione per 10 secondi dopodiché torna alla posizione normale. Continua così per 10 volte al giorno ogni giorno e vedrai che a distanza di qualche settimana le tue labbra saranno più grandi e voluminose”.

E niente, ragazze. Non state a perder tempo, ve lo dico io. Il comune denominatore di sti esercizi è uno solo: trovatevi un bel macho latino che zampilli fuego y pasion da ogni poro e limonateci duro il più a lungo possibile. L’effetto dovrebbe essere ugualmente garantito, con automatiche iniezioni di autostima che di sti tempi fan bene un po' per tutto e senz’altro meglio dello ialuronico. Così facendo, pare che poi ci sia anche la risposta al cruccio che vi tormenta la mattina davanti allo specchio: sì, tranquille, siete fighe. Comunque. Anzi, no. Di più.