AnnaGiùDalTram

lunedì 29 febbraio 2016

Un nome è per sempre.

Nichi, Ed. Avete smosso mari e monti per avere un figlio. Siete andati fino in Calfiornia, avete affitato l'utero di una madre indonesiana. Sto gagno potrà avere addirittura tre passaporti. Dite che è figlio di una bellissima storia d'amore. Ma allora spiegatemi il motivo, la ragione intrinseca, la volontà petalosa dentro la quale ci sta il perchè abbiate deciso di dargli un nome da cane: Tobia. [questo post è solo il preambolo di altri dedicati alle bizzarie dei nomi, stay tuned.]

sabato 20 febbraio 2016

Era il 2007 e sentii un (') Eco.

Il cielo è cupo, le nuvole gonfie di pioggia tra poco potrebbero piangere su quest’occasione più unica che rara. Umberto Eco, il professore, il padre de “Il nome della rosa”, lo scrittore, il filosofo, il linguista, è qui, ad Almese. Lo rincorriamo per alcune ore, con le reverenza che si deve a quelle rare persone intrise di genialità. Finalmente l’occasione arriva, in tarda serata, appena sulla collina di Almese, dove Eco è invitato ad un banchetto decisamente chic. Ci accomodiamo su due sedie da giardino. Per un attimo balza alla mente la remota possibilità che ci si trovi davanti al docente universitario per una terribile interrogazione di semiotica. Ma lui, Eco, è molto di più. Adesso non può proprio piovere. “Via, fuoco”, dice prima di iniziare con le domande. Parte ricordando la sua esperienza giovanile in Valle, ad Avigliana e Coazze, dove lo zio, dirigente incorruttibile dell’ufficio imposte, lo ospitava nel periodo estivo. “Ho delle memorie di serate al tramonto, sul balcone, in grembo allo zio, mentre mi succhiavo il dito e vedevo il lago e la Sacra. Questa è una delle immagini più forti della mia vita”. Ecco perché l’imponente abbazia ricorrerà, in modo figurato, nel suo celebre romanzo “Il nome della Rosa”. Gli chiediamo se pensa che la Valle di Susa, alla luce della sua storia passata e presente, possa essere un luogo in grado di offrire risorse alla cultura, alla comunicazione, senza correre il rischio di chiudersi troppo in se stessa. “Quando ci si trova ai confini si è sempre un po’ marginalizzati, questo è fatale. Però i posti di frontiera in alcuni periodi sono stati centri di smistamento importanti per la comunicazione. Poi siete un luogo di tale interesse turistico che mi pare non vi faccia rimanere isolati. È anche importante preservare questo felice isolamento: può diventare la vostra forza”. La notizia del Premio Letterario, ci ha confessato, non l’ha particolarmente stupito: “Siamo onesti, alla mia età non mi importa più prendere dei premi. Mi ha interessato perché era intitolato alla memoria di un amico. Se fosse stato dedicato a Cavour, avrei declinato l’invito”. Giorgio Calcagno e Umberto Eco si conoscevano, da quando Calcagno entrò a “La Stampa”. Il giornalista intervistò alcune volte il letterato e subito ne nacque una sintonia. “Ci trovavamo simpatici, avevamo gli stessi interessi, ci piacevano i giochi linguistici, i piccoli epigrammi; c’era uno humor complice. Poi sono piemontese anch’io e avevamo un giro di amici comuni”. Infine uno sguardo sulla realtà attuale, a partire da una curiosità letta nella biografia che le enciclopedie delineano di Eco. In gioventù fu impegnato nella GIAC, l'allora ramo giovanile dell'Azione Cattolica: nei primi anni '50 fu chiamato tra i responsabili nazionali del movimento studentesco dell'AC. Poi nel 1954 abbandonò l'incarico (come aveva fatto Carlo Carretto) in polemica con Luigi Gedda e la sua politica associativa di vicinanza alle destre. Così gli abbiamo chiesto se la sua esperienza associativa l’avesse aiutato nel percorso di vita e professionale. “Io ero un dimissionario e non ebbi i posti in Rai o al Parlamento come coloro che invece rimasero. Ma vivere in Ac mi ha aiutato tantissimo. E’ stata una scuola di serietà, di impegno, mi ha insegnato lo spirito di sacrificio. Mentre i miei compagni di scuola andavano a ballare o a sciare, io mi recavo in associazione a far giocare i bambini. Al di là delle posizioni ideologiche e filosofiche ho mantenuto contatti con vari personaggi storici dell’AC.” Poi una battuta sul dibattito tra Chiesa italiana e Politica che ha voce in quest’ultimo periodo: “Non sono un profeta e non so come andrà a finire. Attualmente si sta creando una spaccatura e ciò mette in crisi i laici cattolici impegnati. Il fenomeno è negativo ma può darsi che si tratti di una fiammata provvisoria”. Ne avremmo fatte ancora di domande. Anche solo per il gusto di ascoltare la padronanza di conoscenze e di linguaggio del Professore. Ma tutte le dirette hanno un tempo limite. Il bello sta nel saperle cogliere appieno. Speriamo di esserci riusciti. 

giovedì 11 febbraio 2016

"Il valletto imbellettato". Di Conti, Garko, Raffaele, Ghenea. Dirige l'orchestra il maestro Beppe Vessicchio. Canta: L'Italia.



A me il clima che aleggia intorno al Festival piace. A San Remo sono affezionata perché da piccola coi miei andavamo sempre in vacanza lì. Passavo davanti al teatro Ariston e pensavo: “Ma che, qui dentro lo fanno?”. Quindi, se posso, lo seguo. Mi piacciono sti avvenimenti nazionalpopolari, pieni di retorica, di trash spiccio e di qualche canzone che poi fa il suo giusto corso e sfonda nelle radio. Mi piacciono i Jalisse, i fiori, quello dal pubblico che urla qualcosa di incomprensibile –un fenomeno del genere c’è sempre, da 66 anni- le scale, la sala stampa, il balconcino con le anticipazioni per il Tg1 con Vincenzo Mollica che riesce a starci a stento, Beppe Vessicchio, strass e paillettes. Poi le vallette. E da quest’anno i valletti. E permettetemi di glissare su canzoni e nastrini arcobaleno perché tanto ne hanno parlato già tutti. Punto primo: le vallette a San Remo da che mondo e mondo, devono essere fighe. E su questo frangente negli ultimi anni stiamo facendo un po’ acqua da tutte le parti. Ma pazienza: puntiamo sulla bravura. Giusto! Complimenti Festival, un po’ di meritocrazia: sale sul palco dell’Ariston solo chi è bravo. Sì. Ecco, appunto. Ora dovete spiegarmi perché vallette e presentatori che siano, appena calcano l’Ariston si lobotomizzano. Per presentare un cantante (mediamente tre righe di parlato) vanno in botta d’ansia. Leggono il gobbo ma quasi sempre non lo vedono bene e quindi strabuzzano gli occhi come all’esame della patente il mio vicino di casa di 83 anni. Saltano righe e parole quindi la presentazione del cantante suona più o meno come se si leggesse a voce alta il tabellone dello Scarabeo a partita finita. Ma cribbio: siete almeno in 4 su quel palco; i cantanti in gara non sono più di 10/15, non riuscite a dividervi il lavoro e studiarvi a memoria quelle maledette tre righe di introduzione? Ma all’asilo non ci siete andati? Come facevate per la poesia della festa del papà? Pazienza, ce ne faremo una ragione: non è tutto oro quello che luccica. E soprattutto, non è tutto botulino quello che gonfia. A meno che. Gabriel Garko. Già, lui. Il valletto. Orde di homo sapiens che puntavano all’evoluzione della specie e invece si vedono rappresentati dal “valletto”. Sì perché le fanciulle, le tardone e le sciure, appena Gabriel è salito sul palco lo puntavano con i binocoli per il birdwatching. La domanda è una sola: perché? Perché è un sex symbol? Sì, può darsi: è un sex symbol per confusi, senz’altro. Perchè si trova esattamente nel limbo del dubbio: si imbelletta come una femmina ma tenta la risata baritonale da bello e dannato. Si trucca, si gonfia, si strizza, si unge qualsiasi muscolo facciale ma poi è alto 1.90 e fa la pipì da in piedi. Gabriel, ascolta. Intanto diamo il nome giusto alle cose. Dario, Dario Oliviero, siamo quasi cognonimi. Sei di Settimo Torinese. Quando parli pizzichi la lingua tra i denti bianchissimi per arrapare le ovaie in sala all’Ariston ma così facendo a noi sabaudi riporti alla memoria un solo paragone: Gianfranco Bianco, memorabile conduttore del Tg3 Piemonte anche definito dai valsusini duri e puri “linguetta porca”. Non noto per essere un marcantonio da cubo, ecco. DarioOliviero-GabrielGarko: credo ti sia rimasto incastonato un ombrello a manico tra la chiappa destra e quella sinistra. Occhio che quella roba lì fa anche effetto mantice. Sta a vedere che è per quello che ti si sono gonfiati gli zigomi?! Però grazie. Grazie per gli spunti. Altrimenti noi giornalisti o presunti tali, in che cosa potremmo dilettarci a spettegolare?